Davide Rondoni
Quante volte, Milano
dalla mia terra più dolce
sono arrivato davanti al tuo volto
piatto, senza respiro.
E’ il tempo dell’amore duro,
è notte, solo notte, è dignità
di sguardi che sanno d’averla
perduta, è il viale dove scendo
come bestia che è pazza a cercare
l’asfalto nero, rapido
e luminoso di pioggia come
uno stordimento.
Pioggia anche la mattina
giù dai vetri larghi al supermarket,
acqua sentita per un istante,
una stretta nel cuore all’uscita
dalle porte a cellula di luce
e giù la testa, di corsa
fino all’entrata confusa nell’auto
tra l’odore dei vestiti bagnati
e la carezza gelida del cellophàn.
Devo scordarmi di lei,
scesa per le scale
del metrò, senza più bellezza per me,
devo scordarmi di me, chiuso
in auto a guardarla senza più pensiero.
Devo scordarmi quel tuo nero, Milano,
e il vaniloquio del traffico
sotto l’acqua, e il giorno e l’ora,
scoprire che non c’era
né diritto né speranza, e neanche
amore, ma furore, solo dolce
e demente furore.
Quante volte dalla mia terra più calma
sono venuto al tuo inferno.
Mi conoscono i fedeli dei chioschi notturni,
illuminati come stelle gelate, le mosche
che sembrano i maghrebini, i turchi
che stanno intorno a trafficare, ad aver pace.
Quante volte sono venuto al tuo inferno,
Milano, a inaugurarlo.
E se quella notte speravo in una notte
più calma e di risentire il mare
non era per predare, non era
per gettare il capo in un bianco fuoco,
ma era per avere quiete, quiete
se non amore, quiete un poco…