Il mio cuore esulta al cospetto dell’arcobaleno che sta nascendo: come venendo al mondo; come nel sapersi uomo; così, nello scoprirsi vecchio, mi sia data la morte! Il Bambino è padre dell’Uomo e siano i miei giorni l’uno all’altro stretti dal sentimento della natura.
È questo il primo giorno mite di marzo, Più fragrante di momento in momento, Col pettirosso che cinguetta in cima al larice Che sorge accanto alla nostra casa. Aleggia nell’aria una benedizione Che sembra infondere un senso di gioia Agli alberi spogli, alle nude montagne Ed ai verdi campi erbosi. Sorella mia! Ho un desiderio: Ora che la nostra colazione è terminata, Fai presto, lascia le tue faccende mattutine, E vieni fuori a goderti il sole. Edward verrà con te, e ti prego, Presto, mettiti il tuo abito silvestre, E non portar libri, chè questo giorno Noi lo dedicheremo al riposo. Nessuna tetra parvenza sarà legge Per il nostro vivente calendario: Da oggi, amica mia, data per noi L’inizio dell’anno. Amore, che ora ovunque rinasce, Migra furtivo di cuore in cuore, Dalla terra all’uomo, dall’uomo alla terra, – E’ questa l’ora dei sentimenti. Ora un momento potrà darci di più Di cinquant’anni di ragionamenti; Le nostre menti succhieranno da ogni poro Lo spirito della stagione. Poche tacite leggi si daranno i nostri cuori Cui prestare lunga obbedienza; Per l’anno a venire prenderemo L’esempio da quest’oggi. E dal beato potere che aleggia D’Intorno, quaggiù e su in cielo, Trarremo la misura delle anime nostre, Accordandole alla nota d’amore. Orsù vieni, sorella mia! Vieni ti prego, Presto, mettiti il tuo abito silvestre, E non portar libri, chè questo giorno Noi lo dedicheremo al riposo.
Guardatela. Unica nel campo, Solitaria ragazza dell’altopiano, Che miete e fra sè canta! Fermatevi, o passate oltre in silenzio! Sola essa taglia e lega il grano Mentre canta una malinconica canzone. Udite, la valle immensa Trabocca del suo canto. Nessun usignolo mai cantò Più gradevoli note e spossate compagnie Di viandanti in qualche oasi ombrosa Nei deserti dell’Arabia; Mai si udì il cuculo Rompere a primavera i silenzi marini Con voce così seducente Nelle remote Ebridi. Chi mai mi dirà di cosa essa canta? Forse le dolenti note scorrono Per cose antiche, tragiche e lontane, Per battaglie d’epoche remote, O forse era un lamento più umile, Per faccende familiari, cose d’ogni giorno, Forse è un dolore normale, una perdita, un dispiacere Che è stato e potrà ricapitare. Qualsiasi il tema, la vergine cantava Come se il suo canto non dovesse mai finire: La vedevo cantare durante il lavoro E mentre si piegava sulla falce. Ascoltavo senza muovermi o parlare, E salendo la collina Portai nel cuore quella musica Ben oltre il momento che più non la sentii.
Vagavo solo come una nuvola che galleggia in alto, oltre valli e colline, quando all’improvviso ho visto una folla, una moltitudine di giunchiglie dorate, accanto al lago, sotto gli alberi, svolazzare e danzare nella brezza. Continue come stelle che splendono e scintillano sulla via lattea, si stendevano in una linea infinita lungo il margine di una baia. Ne vidi diecimila a colpo d’occhio che scuotevano le teste in una danza vivace. Le onde ballavano al loro fianco ma loro superavano le scintillanti onde in allegria un poeta non poteva che essere felice in una compagnia così gioconda io le fissavo sempre di più ma pensavo poco alla ricchezza che quello spettacolo mi aveva portato perché spesso, quando sto sdraiato sul mio giaciglio distratto o pensoso, loro lampeggiano su quell’occhio introspettivo che è la beatitudine della solitudine allora il mio cuore si riempie di piacere e danza con le giunchiglie
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