Ho attraversata tutta la città. Poi ho salita un’erta, popolosa in principio, in là deserta, chiusa da un muricciolo: un cantuccio in cui solo siedo; e mi pare che dove esso termina termini la città. Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore; come un amore con gelosia. Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via scopro, se mena all’ingombrata spiaggia, o alla collina cui, sulla sassosa cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa. Intorno circola ad ogni cosa un’aria strana, un’aria tormentosa, l’aria natia. La mia città che in ogni parte è viva, ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita pensosa e schiva.
Di corsa usciti a mezzo il campo, date prima il saluto alle tribune. Poi, quello che nasce poi, che all’altra parte rivolgete, a quella che più nera si accalca, non è cosa da dirsi, non è cosa ch’abbia un nome. Il portiere su e giù cammina come sentinella. Il pericolo lontano è ancora. Ma se in un nembo s’avvicina, oh allora una giovane fiera si accovaccia e all’erta spia. Festa è nell’aria, festa in ogni via. Se per poco, che importa? Nessun’offesa varcava la porta, s’incrociavano grida ch’eran razzi. La vostra gloria, undici ragazzi, come un fiume d’amore orna Trieste.
Falce martello e la stella d’Italia ornano nuovi la sala. Ma quanto dolore per quel segno su quel muro! Esce, sorretto dalle grucce, il Prologo. Saluta al pugno; dice sue parole perché le donne ridano e i fanciulli che affollano la povera platea. Dice, timido ancora, dell’idea che gli animi affratella; chiude: “E adesso faccio come i tedeschi: mi ritiro”. Tra un atto e l’altro, alla Cantina, in giro rosseggia parco ai bicchieri l’amico dell’uomo, cui rimargina ferite, gli chiude solchi dolorosi; alcuno venuto qui da spaventosi esigli, si scalda a lui come chi ha freddo al sole. Questo è il Teatro degli Artigianelli, quale lo vide il poeta nel mille novecentoquarantaquattro, un giorno di Settembre, che a tratti rombava ancora il canone, e Firenze taceva, assorta nelle sue rovine.
Anch’io tra i molti vi saluto, rosso- alabardati, sputati dalla terra natia, da tutto un popolo amati. Trepido seguo il vostro gioco. Ignari esprimete con quello antiche cose meravigliose sopra il verde tappeto, all’aria, ai chiari soli d’inverno. Le angoscie che imbiancano i capelli all’improvviso, sono da voi così lontane! La gloria vi dà un sorriso fugace: il meglio onde disponga. Abbracci corrono tra di voi, gesti giulivi. Giovani siete, per la madre vivi; vi porta il vento a sua difesa. V’ama anche per questo il poeta, dagli altri diversamente – ugualmente commosso.
Malinconia la vita mia struggi terribilmente; e non v’è al mondo, non c’è al mondo niente che mi divaghi. Niente, o una sola casa. Figliola, quella per me saresti. S’apre una porta; in tue succinte vesti entri, e mi smaghi. Piccola tanto, fugace incanto di primavera. I biondi riccioli molti nel berretto ascondi, altri ne ostenti. Ma giovinezza, torbida ebbrezza, passa, passa l’amore. Restan sì tristi nel dolente cuore, presentimenti. Malinconia, la vita mia amò lieta una cosa, sempre: la Morte. Or quasi è dolorosa, ch’altro non spero. Quando non s’ama più, non si chiama lei la liberatrice; e nel dolore non fa più felice il suo pensiero. Io non sapevo questo; ora bevo l’ultimo sorso amaro dell’esperienza. Oh quanto è mai più caro il pensier della morte, al giovanetto, che a un primo affetto cangia colore e trema. Non ama il vecchio la tomba: suprema crudeltà della sorte.
Ho parlato a una capra. Era sola sul prato, era legata. Sazia d’erba, bagnata dalla pioggia, belava. Quell’uguale belato era fraterno al mio dolore. Ed io risposi, prima per celia, poi perché il dolore è eterno, ha una voce e non varia. Questa voce sentiva gemere in una capra solitaria. In una capra dal viso semita sentiva querelarsi ogni altro male, ogni altra vita.
Sai un’ora del giorno che più bella sia della sera? tanto più bella e meno amata? È quella che di poco i suoi sacri ozi precede; l’ora che intensa è l’opera, e si vede la gente mareggiare nelle strade; sulle mole quadrate delle case una luna sfumata, una che appena discerni nell’aria serena. È l’ora che lasciavi la campagna per goderti la tua cara città, dal golfo luminoso alla montagna varia d’aspetti in sua bella unità; l’ora che la mia vita in piena va come un fiume al suo mare; e il mio pensiero, il lesto camminare della folla, gli artieri in cima all’alta scala, il fanciullo che correndo salta sul carro fragoroso, tutto appare fermo nell’atto, tutto questo andare ha una parvenza d’immobilità. È l’ora grande, l’ora che accompagna meglio la nostra vendemmiante età.
Tu così avventuroso nel mio mito, così povero sei fra le tue sponde. Non hai, ch’io veda, margine fiorito. Dove ristagni scopri cose immonde. Pur, se ti guardo, il cor d’ansia mi stringi, o torrentello. Tutto il tuo corso è quello del mio pensiero, che tu risospingi alle origini, a tutto il fronte e il bello che in te ammiravo; e se ripenso i grossi fiumi, l’incontro con l’avverso mare, quest’acqua onde tu appena i piedi arrossi nudi a una lavandaia, la più pericolosa e la più gaia, con isole e cascate, ancor m’appare; e il poggio da cui scendi è una montagna. Sulla tua sponda lastricata l’erba cresceva, e cresce nel ricordo sempre; sempre è d’intorno a te sabato sera; sempre ad un bimbo la sua madre austera rammenta che quest’acqua è fuggitiva, che non ritrova più la sua sorgente, né la sua riva; sempre l’ancor bella donna si attrista, e cerca la sua mano il fanciulletto, che ascoltò uno strano confronto tra la vita nostra e quella della corrente.
Fu nelle vie di questo Borgo che nuova cosa m’avvenne. Fu come un vano sospiro il desiderio improvviso d’uscire di me stesso, di vivere la vita di tutti, d’essere come tutti gli uomini di tutti i giorni. Non ebbi io mai sì grande gioia, né averla dalla vita spero. Vent’anni avevo quella volta, ed ero malato. Per le nuove strade del Borgo il desiderio vano come un sospiro mi fece suo. Dove nel dolce tempo d’infanzia poche vedevo sperse arrampicate casette sul nudo della collina, sorgeva un Borgo fervente d’umano lavoro. In lui la prima volta soffersi il desiderio dolce e vano d’immettere la mia dentro la calda vita di tutti, d’essere come tutti gli uomini di tutti i giorni. La fede avere di tutti, dire parole, fare cose che poi ciascuno intende, e sono, come il vino ed il pane, come i bimbi e le donne, valori di tutti. Ma un cantuccio, ahimé, lasciavo al desiderio, azzurro spiraglio, per contemplarmi da quello, godere l’alta gioia ottenuta di non esser più io, d’essere questo soltanto: fra gli uomini un uomo. Nato d’oscure vicende, poco fu il desiderio, appena un breve sospiro. Lo ritrovo – eco perduta di giovinezza – per le vie del Borgo mutate più che mutato non sia io. Sui muri dell’alte case, sugli uomini e i lavori, su ogni cosa, è sceso il velo che avvolge le cose finite. La chiesa è ancora gialla, se il prato che la circonda è meno verde. Il mare, che scorgo al basso, ha un solo bastimento, enorme, che, fermo, piega da un parte. Forme, colori, vita onde nacque il mio sospiro dolce e vile, un mondo finito. Forme, colori, altri ho creati, rimanendo io stesso, solo con il mio duro patire. E morte m’aspetta. Ritorneranno, o a questo Borgo, o sia a un altro come questo, i giorni del fiore. Un altro rivivrà la mia vita, che in un travaglio estremo di giovinezza, avrà per egli chiesto, sperato, d’immettere la sua dentro la vita di tutti, d’essere come tutti gli appariranno gli uomini di un giorno d’allora.
Maria ti guarda con gli occhi un poco come Venere loschi. Cielo par che s’infoschi quello sguardo, il suo accento è quasi roco. Non è bella, né in donna ha quei gentili atti, cari agli umani; belle ha solo le mani, mani da baci, mani signorili. Dove veste, sue vesti son richiami per il maschio, un’asprezza strana di tinte. È mezza bambina e mezza bestia. Eppure l’ami. Sai ch’è ladra e bugiarda, una nemica dei tuoi intimi pregi; ma quanto più la spregi più la vorresti alle tue voglie amica.
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