Che cosa posso dirti che non sai Della vita dopo la morte? Gli occhi di tuo figlio, che ci avevano turbato Con la tua piega epicantica Slavo-asiatica, ma che sarebbero diventati Così perfettamente tuoi, Diventarono umide gemme, La più dura sostanza del più puro dolore Mentre lo imboccavo nel seggiolone bianco. Grandi mani di dolore torcevano e ritorcevano La pezzuola bagnata del suo viso. Gli estrassero tutte le lacrime. Ma la sua bocca ti tradì – accettò Il cucchiaio tenuto dalla mia mano senza corpo Che si protendeva dalla vita sopravvissuta a te. Giorno per giorno sua sorella diventava Sempre più pallida per la ferita Che non poteva né vedere né toccare né sentire, mentre io La fasciavo ogni giorno nella sua azzurra giacca bretone. Di notte giacevo sveglio nel mio corpo L’Impiccato Il nervo del collo sradicato e il tendine Che legava la base del cranio Alla spalla sinistra Strappato dalla radice e attorto in nodi – Immaginai che il dolore si sarebbe piegato Se fossi stato appeso in spirito A un uncino sotto il muscolo del collo. Precipitati dalla vita Facevamo un silenzio profondo, noi tre, Ciascuno nel suo letto. Ci confortarono i lupi. Sotto quella luna di febbraio e la luna di marzo Lo Zoo si era avvicinato. E a dispetto della città I lupi ci consolarono. Due e tre volte per notte Per lunghi minuti Cantavano. Avevano scoperto il nostro rifugio. E i dingo, e i lupi dalla criniera brasiliana – Tutti levavano la voce insieme Col grigio branco del nord. I lupi ci sollevarono nelle loro voci lunghe. Ci avvolsero e irretirono Nel lamento per te, nel compianto per noi, Ci tramarono nelle loro voci. Giacevano nella tua morte, Nella neve caduta, sotto la neve che cadeva. E intanto il mio corpo affondava nella leggenda In cui i lupi cantano nella foresta Per due bambini trasformati nel sonno In orfani Accanto al cadavere della madre.
L’aria intera, il giorno intero vortica dei richiami delle taccole. La stirpe neonata delle taccole è iniziata alla taccolità – quella complicata corte di convenzioni e precedenze, di sciovinismo e leggi. Corte che è quasi una prigione – con sbarre di gridi e di segnali. Carcerieri sono tutte le altre taccole. Aprendomi una via tra i grovigli dei rovi ho pensato di nuovo: mi sentono? I rovi sono un tale successo, le loro difese così elaborate, la loro estensione così intenzionale, sono svegli? Certo un nimbo di dolore e di piacere siede sulla loro nuda corona, la loro offerta sessuale. Certo non sono solo insensibili, un vano andare a tentoni. E poi perché no? Non è lo stesso per le cellule del mio sangue? Le mie cellule cerebrali forse temono o sentono il bisturi o l’incidente? Anch’esse incoronano una pianta di straordinaria insensibilità. E le taccole si danno segretamente da fare per essere taccole come se fossero semi nella terra. L’intera claque è un’ottenebrata religione intorno alla sintassi e al vocabolario divini di una muta cellula, che non sa chi siamo e neppure che siamo qui, inimminenti come un qualsiasi fiore di rovo.
Fustigato con le zampe fino all’azzoppimento colpito al capo con proiettili di cervello accecato d’occhi inchiodato dalle sue stesse costole strangolato sin quasi all’ultimo suo rantolo dalla sua stessa trachea tramortito dalle bastonature del suo stesso cuore vedendo la sua vita trapassarlo, un balenar di sogno, mentre affogava nel suo sangue tirato sotto dal peso dei suoi visceri lanciando un urlo sventrante ch’era lo svellersi delle sue radici dall’atomo del fondo roccioso spalancando la bocca e lasciandosi irrompere dall’urlo come in distanza e fracassato tra i rifiuti del suolo riuscì a udire, debole e lontano -“È un maschio” poi tutto divenne nero.
In principio era Grido Che generò Sangue Che generò Occhio Che generò Paura Che generò Ala Che generò Osso Che generò Granito Che generò Viola Che generò Chitarra Che generò Sudore Che generò Adamo Che generò Dio Che generò Niente Che generò Mai Mai Mai Mai
Per mezz’ora, attraverso una lente d’ingrandimento, ho guardato i ragni fare l’amore indisturbati, ignari del voyeur, orribilmente felici. Prima, nell’angolo inferiore della finestra, a sinistra, ho visto un comune ragno muoversi. Là in quel letamaio di carcasse, un macello di insetti seccati nei loro colori, una tana trofeo di uniformi, rossi, verdi, scaglie d’ali rigate di giallo e staccate, gli avanzi dell’anno scorso, riarsi dall’inverno, inodori – teste, busti, corsetti, gusci di zampe, una briciola di frammenti in un museo di polvere e di oblio, là in quella crepa, nascosta da vecchi involucri di cadaveri, un ragno è venuto a vivere. Ha filato una bava disordinata e quasi invisibile di trefoli, alcuni angoli a caso camuffati da grigia lordura di pioggia sui vetri. L’ho visto muoversi. Poi uno più piccolo, ugualmente rossiccio, del tutto simile, solo più piccolo. Il maschio, che all’improvviso appariva. A testa in giù, lei stava facendo una danza lenta e malvagia. Tutte le zampe aggrappate tranne le due principali, che battevano sulla tela, facendola vibrare, pensavo, come una mosca, per attirare il maschio immobile, a testa in giù, vicino al telaio, a due centimetri da lei. Lui si allontanò, preparandosi a fuggire, pensai. Forse impaurito dalle sue intenzioni e dai suoi appetiti: dubbioso. Ma il potere di lei, concentratosi, incapace di sbagliare dopo tutti i milioni d’anni che ci sono voluti a perfezionare quest’arte, lo fece girare a una distanza di cinque centimetri, e lo appese all’ingiù, la testa sotto di lei, il ventre contro. Bloccato completamente, se non per quel debole, appena percettibile pulsare delle sue pelose estremità. Lei si fece dappresso, capovolta, piano piano, e intrappolò le zampe anteriori di lui tra le sue. Ecco, immaginai, il fattaccio. Mi avvicinai per guardare. Qualcosa di assai difficile da capire e da osservare correttamente stava accadendo. Le mani di lei sembravano gonfie, minuscole chele. Quelle due pinze che lei si ripiega sotto il naso per portare le cose alle sue tenaglie si stavano muovendo, luccicanti. Lui si scuoteva ogni tanto. Il guscio di lei sobbalzava – brevi spasmi di crudeli estasi. Lo stava facendo a pezzi? Qualcosa di molto più delicato, un accordo molto più delicato stava avvenendo. Sotto l’addome lui aveva un beccuccio – presumibilmente il suo cazzetto nodoso, rossiccio come il resto di lui, una tettarella, un infinitesimale capezzolo. Probabilmente al microscopio risulta dotato e disegnato come il microattrezzo di una qualche navicella spaziale. A me apparve semplice e rozzo. Tutt’altro che semplici, invece, erano i palpi, le pinze-cesti di lei – erano come i bracci meccanici che trattano materia radioattiva dall’altra parte del vetro di protezione. Ma oscenamente abili. Ne allungò una, non riesco a immaginare come ci riuscì, ed estrasse dita scimmiesche dalle sue pinze di granchio e afferrò il cazzo-capezzolo. Non appena lo ebbe una bolla di lucido collante si formò sulla pinza, grande come la sua testa, poi si ridusse e man mano che si riduceva lei mollava la presa, come se il cazzo si fosse inceppato, e raddoppiò la quantità di liquido brillante alle ganasce e con questo si strofinò il muso e il sottopelle, sei, sette secche strofinate, mentre il suo addome sobbalzava, la punta della sua coda si dimenava e lui pendeva inerte. Poi si attaccò a lui una seconda volta, al gomito, e afferrò il suo germoglio, e la viscosa bolla si gonfiò al di sopra delle sue chele, un rosso sperone vi guizzò dentro, e lui sussultò nel suo capestro. Allora la bolla si ridusse e lei la staccò e se ne riempì ancora la faccia, qualunque cosa fosse. Del tutto acquietati, a parte quei sobbalzi furtivi, essi pendevano a testa in giù, faccia a faccia, tenendosi le zampe anteriori. Ancora non era chiaro che cosa stesse accadendo. Continuò. Mezz’ora. Finalmente lei si ritrasse. Lui pendeva come un ragno morto, proprio comel’avevo visto pendere per tutto quel tempo sotto di lei. Pensai che fosse finito. Così adesso, pensai, vedo il delitto. Ora potrei immaginare che se lui si muovesse lei lo crederebbe una mosca e si sentirebbe vorace. E finora lei ha dimostrato scarso interesse per lui concentrata com’era a tenerselo attaccato, come se lui capovolto non fosse altro che il piatto della prelibatezza. Ecco che si è spostata. Per un po’ si è mossa intorno senza meta, finché compresi che si stava concentrando su una V di bianco polveroso, un delta di filo che sembrava proprio lanugine. Poi vidi che infilò il suo ventre ben dentro la V. Vidi che con l’abilità dei suoi piedi, fini come baffi di gatto, adattava bollicine di colla alle fibre e altre ne attaccava per rendere più spessa e più profonda la V, e per [chiuderne la punta. Poi ci danzò sopra, a pancia in giù – all’improvvisò si sollevò e si appese sopra la V. Seduta nella coppa della V stava una piccola bolla di nuovo biancore. Un primo uovo? Di già? Allora con grande cura lei maneggiò la bolla e spinse altre fibre lanose nella V, su entrambi i lati, riducendola via via. Capii che stavo osservando la potente natura in un momento di creazione, ma non sapevo di che cosa. Presto l’informe puntolino di bianco era un granello residuo, che lei abbandonò. Ritornò verso il maschio, che pendeva ancora nella sua posizione. Si fermò e si nettò accuratamente le mani, serrandole nelle pinze. E all’improvviso con rapida presa, miracolosamente precisa si tolse qualcosa di bocca, che rovesciò su un trefolo esterno della tela – una particella di bianco – è lo scarto, pensai, del loro accoppiamento. Così smisi di guardare. Dieci minuti dopo ricominciavano. Ora sono svaniti. Ho esaminato tutta la discarica della carcasse e le fessure della finestra al di sotto. Sono nascosti. Lei lo sta divorando? O c’è ancora qualche giorno di felicità prima che lui entri nella sua collezione? Sono nascosti probabilmente insieme nel buio muffito, stringendosi gli avambracci, ascoltando la pioggia, godendo mentre l’orlo del sole, dietro le nuvole, si profila senza la nostra ombra.
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