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Ted Hughes

Ted Hughes

 

Che cosa posso dirti che non sai
Della vita dopo la morte?
Gli occhi di tuo figlio, che ci avevano turbato
Con la tua piega epicantica
Slavo-asiatica, ma che sarebbero diventati
Così perfettamente tuoi,
Diventarono umide gemme,
La più dura sostanza del più puro dolore
Mentre lo imboccavo nel seggiolone bianco.
Grandi mani di dolore torcevano e ritorcevano
La pezzuola bagnata del suo viso. Gli estrassero tutte le lacrime.
Ma la sua bocca ti tradì – accettò
Il cucchiaio tenuto dalla mia mano senza corpo
Che si protendeva dalla vita sopravvissuta a te.
Giorno per giorno sua sorella diventava
Sempre più pallida per la ferita
Che non poteva né vedere né toccare né sentire, mentre io
La fasciavo ogni giorno nella sua azzurra giacca bretone.
Di notte giacevo sveglio nel mio corpo
L’Impiccato
Il nervo del collo sradicato e il tendine
Che legava la base del cranio
Alla spalla sinistra
Strappato dalla radice e attorto in nodi –
Immaginai che il dolore si sarebbe piegato
Se fossi stato appeso in spirito
A un uncino sotto il muscolo del collo.
Precipitati dalla vita
Facevamo un silenzio profondo, noi tre,
Ciascuno nel suo letto.
Ci confortarono i lupi.
Sotto quella luna di febbraio e la luna di marzo
Lo Zoo si era avvicinato.
E a dispetto della città
I lupi ci consolarono. Due e tre volte per notte
Per lunghi minuti
Cantavano. Avevano scoperto il nostro rifugio.
E i dingo, e i lupi dalla criniera brasiliana –
Tutti levavano la voce insieme
Col grigio branco del nord.
I lupi ci sollevarono nelle loro voci lunghe.
Ci avvolsero e irretirono
Nel lamento per te, nel compianto per noi,
Ci tramarono nelle loro voci. Giacevano nella tua morte,
Nella neve caduta, sotto la neve che cadeva.
E intanto il mio corpo affondava nella leggenda
In cui i lupi cantano nella foresta
Per due bambini trasformati nel sonno
In orfani
Accanto al cadavere della madre.

Rovi

Ted Hughes

Ted Hughes

 

L’aria intera, il giorno intero
vortica dei richiami delle taccole. La stirpe neonata
delle taccole è iniziata
alla taccolità – quella complicata
corte di convenzioni
e precedenze, di sciovinismo e leggi.
Corte che è quasi una prigione – con sbarre
di gridi e di segnali. Carcerieri
sono tutte le altre taccole. Aprendomi una via
tra i grovigli dei rovi
ho pensato di nuovo: mi sentono?
I rovi sono un tale successo, le loro difese
così elaborate,
la loro estensione così intenzionale, sono svegli?
Certo un nimbo di dolore e di piacere
siede sulla loro nuda corona,
la loro offerta sessuale. Certo non sono solo insensibili,
un vano andare a tentoni. E poi perché no?
Non è lo stesso per le cellule del mio sangue?
Le mie cellule cerebrali forse temono o sentono
il bisturi o l’incidente?
Anch’esse incoronano una pianta
di straordinaria insensibilità. E le taccole
si danno segretamente da fare per essere taccole
come se fossero semi nella terra.
L’intera claque è un’ottenebrata religione
intorno alla sintassi e al vocabolario divini
di una muta cellula, che non sa chi siamo
e neppure che siamo qui,
inimminenti come un qualsiasi fiore di rovo.

Preda

Ted Hughes

Ted Hughes

 

Fustigato con le zampe fino all’azzoppimento
colpito al capo con proiettili di cervello
accecato d’occhi
inchiodato dalle sue stesse costole
strangolato sin quasi all’ultimo suo rantolo
dalla sua stessa trachea
tramortito dalle bastonature del suo stesso cuore
vedendo la sua vita trapassarlo, un balenar di sogno,
mentre affogava nel suo sangue
tirato sotto dal peso dei suoi visceri
lanciando un urlo sventrante ch’era lo svellersi delle sue radici
dall’atomo del fondo roccioso
spalancando la bocca e lasciandosi irrompere dall’urlo come in distanza
e fracassato tra i rifiuti del suolo
riuscì a udire, debole e lontano -“È un maschio”
poi tutto divenne nero.

Lignaggio

Ted Hughes

Ted Hughes

 

In principio era Grido
Che generò Sangue
Che generò Occhio
Che generò Paura
Che generò Ala
Che generò Osso
Che generò Granito
Che generò Viola
Che generò Chitarra
Che generò Sudore
Che generò Adamo
Che generò Dio
Che generò Niente
Che generò Mai
Mai Mai Mai

Eclissi

Ted Hughes

Ted Hughes

 

Per mezz’ora, attraverso una lente d’ingrandimento,
ho guardato i ragni fare l’amore indisturbati,
ignari del voyeur, orribilmente felici.
Prima, nell’angolo inferiore della finestra, a sinistra,
ho visto un comune ragno muoversi. Là
in quel letamaio di carcasse, un macello
di insetti seccati nei loro colori,
una tana trofeo di uniformi, rossi, verdi,
scaglie d’ali rigate di giallo e staccate, gli avanzi
dell’anno scorso, riarsi dall’inverno, inodori – teste,
busti, corsetti, gusci di zampe, una briciola di frammenti
in un museo di polvere e di oblio, là
in quella crepa, nascosta da vecchi involucri di cadaveri,
un ragno è venuto a vivere. Ha filato
una bava disordinata e quasi invisibile
di trefoli, alcuni angoli a caso
camuffati da grigia lordura di pioggia
sui vetri. L’ho visto muoversi. Poi uno più piccolo,
ugualmente rossiccio, del tutto simile,
solo più piccolo. Il maschio, che all’improvviso appariva.
A testa in giù, lei stava facendo una danza
lenta e malvagia. Tutte le zampe aggrappate
tranne le due principali, che battevano sulla tela,
facendola vibrare, pensavo, come una mosca, per attirare
il maschio immobile, a testa in giù, vicino al telaio,
a due centimetri da lei. Lui si allontanò,
preparandosi a fuggire, pensai. Forse
impaurito dalle sue intenzioni e dai suoi appetiti:
dubbioso. Ma il potere di lei, concentratosi,
incapace di sbagliare dopo tutti i milioni d’anni
che ci sono voluti a perfezionare quest’arte, lo fece girare
a una distanza di cinque centimetri, e lo appese
all’ingiù, la testa sotto di lei, il ventre contro.
Bloccato completamente, se non per quel debole,
appena percettibile pulsare delle sue pelose estremità.
Lei si fece dappresso, capovolta, piano piano,
e intrappolò le zampe anteriori di lui tra le sue.
Ecco, immaginai, il fattaccio.
Mi avvicinai per guardare. Qualcosa
di assai difficile da capire e da osservare
correttamente stava accadendo.
Le mani di lei sembravano gonfie, minuscole chele.
Quelle due pinze che lei si ripiega sotto il naso
per portare le cose alle sue tenaglie si stavano muovendo,
luccicanti. Lui si scuoteva ogni tanto.
Il guscio di lei sobbalzava – brevi spasmi
di crudeli estasi. Lo stava facendo a pezzi?
Qualcosa di molto più delicato, un accordo
molto più delicato stava avvenendo.
Sotto l’addome lui aveva un beccuccio –
presumibilmente il suo cazzetto nodoso,
rossiccio come il resto di lui, una tettarella,
un infinitesimale capezzolo. Probabilmente
al microscopio risulta dotato e disegnato
come il microattrezzo di una qualche navicella spaziale.
A me apparve semplice e rozzo. Tutt’altro che semplici,
invece, erano i palpi, le pinze-cesti di lei –
erano come i bracci meccanici
che trattano materia radioattiva
dall’altra parte del vetro di protezione.
Ma oscenamente abili. Ne allungò una,
non riesco a immaginare come ci riuscì,
ed estrasse dita scimmiesche dalle sue pinze di granchio
e afferrò il cazzo-capezzolo. Non appena lo ebbe
una bolla di lucido collante
si formò sulla pinza, grande come la sua testa,
poi si ridusse e man mano che si riduceva
lei mollava la presa,
come se il cazzo si fosse inceppato, e raddoppiò la quantità
di liquido brillante alle ganasce
e con questo si strofinò il muso e il sottopelle,
sei, sette secche strofinate, mentre il suo addome sobbalzava,
la punta della sua coda si dimenava e lui pendeva inerte.
Poi si attaccò a lui una seconda volta, al gomito,
e afferrò il suo germoglio, e la viscosa bolla
si gonfiò al di sopra delle sue chele, un rosso sperone vi guizzò
dentro, e lui sussultò nel suo capestro.
Allora la bolla si ridusse e lei la staccò
e se ne riempì ancora la faccia,
qualunque cosa fosse. Del tutto acquietati,
a parte quei sobbalzi furtivi,
essi pendevano a testa in giù, faccia a faccia,
tenendosi le zampe anteriori. Ancora non era chiaro
che cosa stesse accadendo. Continuò.
Mezz’ora. Finalmente lei si ritrasse.
Lui pendeva come un ragno morto, proprio comel’avevo visto
pendere per tutto quel tempo sotto di lei.
Pensai che fosse finito. Così adesso, pensai,
vedo il delitto. Ora potrei immaginare
che se lui si muovesse lei lo crederebbe una mosca
e si sentirebbe vorace. E finora
lei ha dimostrato scarso interesse per lui
concentrata com’era a tenerselo attaccato,
come se lui capovolto non fosse altro che il piatto
della prelibatezza. Ecco che si è spostata.
Per un po’ si è mossa intorno senza meta,
finché compresi che si stava concentrando
su una V di bianco polveroso, un delta
di filo che sembrava proprio lanugine. Poi vidi
che infilò il suo ventre ben dentro la V.
Vidi che con l’abilità dei suoi piedi, fini come baffi di gatto,
adattava bollicine di colla alle fibre e altre ne attaccava
per rendere più spessa e più profonda la V, e per
[chiuderne la punta.
Poi ci danzò sopra, a pancia in giù –
all’improvvisò si sollevò e si appese
sopra la V. Seduta nella coppa della V
stava una piccola bolla di nuovo biancore.
Un primo uovo? Di già? Allora con grande cura
lei maneggiò la bolla e spinse altre fibre lanose
nella V, su entrambi i lati,
riducendola via via. Capii
che stavo osservando la potente natura
in un momento di creazione, ma non sapevo di che cosa.
Presto l’informe puntolino di bianco
era un granello residuo, che lei abbandonò. Ritornò
verso il maschio, che pendeva ancora nella sua posizione.
Si fermò e si nettò accuratamente le mani,
serrandole nelle pinze. E all’improvviso
con rapida presa, miracolosamente precisa
si tolse qualcosa di bocca, che rovesciò
su un trefolo esterno della tela –
una particella di bianco – è lo scarto, pensai,
del loro accoppiamento. Così smisi di guardare.
Dieci minuti dopo ricominciavano.
Ora sono svaniti. Ho esaminato
tutta la discarica della carcasse
e le fessure della finestra al di sotto.
Sono nascosti. Lei lo sta divorando?
O c’è ancora qualche giorno di felicità
prima che lui entri nella sua collezione? Sono nascosti
probabilmente insieme nel buio muffito,
stringendosi gli avambracci, ascoltando la pioggia, godendo
mentre l’orlo del sole, dietro le nuvole,
si profila senza la nostra ombra.