Ma preferirei essere orizzontale. Non sono un albero con radici nel suolo succhiante minerali e amore materno così da poter brillare di foglie a ogni marzo, né sono la beltà di un’aiuola ultradipinta che susciti grida di meraviglia, senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali. Confronto a me, un albero è immortale e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa: dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia. Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle, alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi. Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso. A volte io penso che mentre dormo forse assomiglio a loro nel modo più perfetto – con i miei pensieri andati in nebbia. Stare sdraiata è per me più naturale. Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio, e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre: finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.
La donna ora è perfetta. Il suo corpo morto ha il sorriso della compiutezza, l’illusione di una necessità greca fluisce nei volumi della sua toga, i suoi piedi nudi sembrano dire: Siamo arrivati fin qui, è finita. I bambini morti si sono acciambellati, ciascuno, bianco serpente, presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota. Lei li ha raccolti di nuovo nel suo corpo come i petali di una rosa si chiudono quando il giardino s’irrigidisce e sanguinano i profumi dalle dolci gole profonde del fiore notturno. La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso, non ha motivo di essere triste. È abituata a queste cose. I suoi neri crepitano e tirano.
Fammi essere forte,
forte di sonno e di intelligenza
e forte di ossa e fibra;
fammi imparare,
attraverso questa disperazione,
a distribuirmi:
a sapere dove e a chi dare
a riempire i brevi momenti
e le chiacchiere casuali
di quell’infuso speciale
di devozione e amore
che sono le nostre epifanie.
A non essere amara.
Risparmiamelo il finale,
quel finale acido citrico aspro
che scorre nelle vene
delle donne in gamba
e sole.
Non è facile dire il cambiamento che operasti. Se adesso sono viva, allora ero morta anche se, come una pietra, non me ne curavo e me ne stavo dov’ero per abitudine. Tu non ti limitasti a spingermi un po’ col piede, no- e lasciare che rivolgessi il mio piccolo occhio nudo di nuovo verso il cielo, senza speranza, è ovvio, di comprendere l’azzurro, o le stelle. Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente mascherato da sasso nero tra i sassi neri nel bianco iato dell’inverno- come i miei vicini, senza trarre alcun piacere dai milioni di guance perfettamente cesellate che si posavano a ogni istante per sciogliere la mia guancia di basalto. Si mutavano in lacrime, angeli piangenti su nature spente, Ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano. Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio. E io continuavo a dormire come un dito ripiegato. La prima cosa che vidi fu l’aria, aria trasparente, e le gocce prigioniere che si levavano in rugiada limpide come spiriti. Tutt’intorno giacevano molte pietre stolide e inespressive, Io guardavo e non capivo. Con un brillio di scaglie di mica, mi svolsi per riversarmi fuori come un liquido tra le zampe d’uccello e gli steli delle piante Non m’ingannai. Ti riconobbi all’istante. Albero e pietra scintillavano, senz’ombra. La mia breve lunghezza diventò lucente come vetro. Cominciai a germogliare come un rametto di marzo: un braccio e una gamba, un braccio, una gamba. Da pietra a nuvola, e così salii in lato. Ora assomiglio a una specie di dio e fluttuo per l’aria nella mia veste d’anima pura come una lastra di ghiaccio. È un dono.
L’ho rifatto Un anno ogni dieci Ci riesco Una specie di miracolo ambulante, la mia pelle Splendente come un paralume nazi, Il mio Piede destro, Un fermacarte La mia faccia un anonimo, pefetto Lino ebraico. Via il drappo, O mio nemico! Faccio forse paura? Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti? Il fiato puzzolente In un giorno svanirà. Presto, ben presto la carne Che il sepolcro ha mangiato si sarà Abituata a me E io sarò una donna che sorride. No ho che trent’anni. E come il gatto ho nove vite da morire. Questa è la Numero Tre. Quale ciarpame Da far fuori a ogni decennio. Che miriade di filamenti. La folla sgranocchiante nocioline Si accalca per vedere Che mi sbendano mano e piede Il grande sporgliarello. Signori e signore, ecco qui Queste sono le mie mani, I miei ginocchi. Sarò anche pelle e ossa, Ma pure sono la stessa, identica donna. La prima volta sucesse che avevo dieci anni. Fu un incidente. Ma la seconda volta ero decisa A insistere, a non recedere assolutamente. Mi dondolavo chiusa Come una conchiglia. Dovettero chiamare e chiamare E staccarmi via i vermi come perle appiccicose. Morire É un’arte, come ogni altra cosa. Io lo faccio in un modo eccezionale. Io lo faccio che sembra come inferno. Io lo faccio che sembra reale. Ammetterete che ho la vocazione. È faccile abbastanza da farlo in una cella. È faccile abbsatanza da farlo e starsene lì. È il teatrale Ritorno in pieno giorno A un posto uguale, uguale viso, uguale animale Urlo divertito: “Miracolo!” È questo che mi ammazza. C’è un prezzo da pagare Per spiare le mie cicatrici,c’e’ un prezzo da pagare per auscultare il mio cuore Eh sì, batte. E c’è un prezzo, un prezzo molto caro, Per una toccatina, una parola, O un po’ del mio sangue O di capelli o un filo dei miei vestiti. Eh sì, Herr Doktor. Eh sì, Herr nemico. Sono il vostro opus magnum. Sono il vostro gioiello, Creature d’oro puro Che a uno strillo si liquefà. Io mi rigiro e brucio. Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà. Cenere, cenere Voi atizzate e frugate. Carne, ossa, non ne trovate Un pezzo di sapone, Una fede nuziale, Una protesi dentale. Herr Dio, Herr Lucifero, Attento, Attento. Dalla cenere io rinvengo Con le mie rosse chiome E mangio uomini come aria di vento
Viverla come dono e disinganno come premio e martirio possessione ed estasi viverla come illusione e vacanza come condanna e tormento malattia e preghiera semplicemente viverla se non fosse che è lei a rubarti la vita.
Non servi, Non servi Non più, nera scarpa, come un piede vi ho vissuto Per trent’anni, gramo e bianco, Trattenendo fiato e starnuto. Papà, ammazzarti avrei dovuto, Tirasti le cuoia prima che ci riuscissi. Tu, fardello imbottito di Dio, marmo cocciuto, Orrenda statua dall’alluce tristo Grosso come una foca di Frisco. … Le nevi del Tirolo, la chiara birra di Vienna Non sono tanto pure o sincere Con la mia ava zingara ed un destino pazzo Di tarocchi ho un mazzo di tarocchi ho un mazzo Qualcosa di giudeo potrei avere Ho sempre avuto terrore di te, Della tua Luftwaffe, del tuo gregregré. E il tuo baffo ben curato E l’occhio ariano rifulgente blu. Uomo-panzer, uomo-panzer, O Tu – Non un Dio ma una svastica nera Così che nessun cielo vi trapela. Ogni donna adora un fascista, Uno scarpone sulla faccia, un brutale Un cuore inumano, uno a te eguale. Stai alla lavagna, papà, Nella foto che ho di te, Biforcuto nel mento, piuttosto che nel pié Ma non meno diabolico per questo, oh già E non meno uomo nero che Azzanna il mio piccolo cuore facendolo in due. Avevo dieci anni allorché sotterrarono te. E a venti cercai di morire Per tornare, tornare, tornare da te. Pensavo che le ossa servissero, perfino le tue. … Nel tuo cuore grasso e nero c’è un paletto Ai paesani nemmeno piacevi. Ora ti pestano, sopra di te fanno un balletto. Chi eri hanno sempre capito.
È meglio che ogni fibra si spezzi e vinca la furia, e il sangue vivo inzuppi divano, tappeto, pavimento e l’almanacco decorato con serpenti testimone che tu sei a un milione di verdi contee da qui, che sedere muti, con questi spasmi sotto stelle pungenti, maledicendo, l’occhio sbarrato annerendo il momento che gli addii vennero detti, e si lasciarono partire i treni, ed io, gran magnanimo imbecille, così strappato dal mio solo regno.
Il coraggio della bocca chiusa nonostante l’artiglieria – la linea rosa e silenziosa, un verme che si crogiola. Dietro ci sono dischi neri, i dischi dell’indignazione – E l’indignazione di un cielo, il suo cervello rugoso