Alle canne viene un brusio. Agli uccelli viene un sussurro. La porta aperta, scarso lo sguardo e un messaggio partito verso il Non Dove della pianura. Una vacca sotto gli abeti, l’eternità sulle siepi. Allo stelo di ogni foglia una fantasia appesa e niente parole, niente nomi. In basso, una strada incolore. In alto, un armonico sole.
Canta l’uccello della luna. Piange una nuvola nella mia stanza. Sbocciano i fiori degli occhi del pentimento. Nella bara della mia finestra il corpo dell’Oriente pullula. L’Occidente agonizza muore. La pianta arancione del sole nella palude cresce della mia stanza, adagio. Sono sveglio non mi crediate un dormiente! L’ombra di un ramo spezzato mi ha addormentato dolcemente. Ora sto sentendo la melodia dell’uccello della luna e sfoglio i petali dell’occhio del pentimento.
Dove sono le mie scarpe?” Chi era che ha chiamato: “Sohrāb?” Era familiare la voce, come l’aria col corpo della foglia. Mia madre dorme. E così anche Manuchehr e Parvāne, e forse tutta la gente della città. Questa notte di Giugno con la calma di un’elegia passa sopra i minuti e una fresca brezza, dai verdi margini della coperta, spazza via il mio sonno. Si sente l’odore della migrazione: il mio cuscino è colmo del canto delle ali di rondini. Sarà mattino e a questa ciotola d’acqua il cielo migrerà. Stanotte devo partire. Io che dalle finestre più aperte ho parlato con la gente di questa parte non ho sentito proferire parola sulla materia del tempo. Nessun occhio appassionatamente fissava la terra. Nel vedere un giardino nessuno era rapito. Nessuno ha preso sul serio una cornacchia sopra un campo. Il mio cuore si contrae quanto una nuvola quando vedo dalla finestra che Huri -la ragazza adolescente del vicinoai piedi del più raro olmo della terra studia la teologia. Vi sono cose, istanti colmi di pienezza (per esempio ho veduto una poetessa così annientata nella contemplazione dello spazio che nei suoi occhi il cielo deponeva l’uovo. E una notte di quelle un uomo mi chiese fino allo spuntare dell’uva, quante ore abbiamo?) Stanotte devo partire. Stanotte devo prendere la valigia che ha spazio quanto la veste della mia solitudine e andare verso una direzione in cui sono visibili epici alberi dinanzi a quella vastità senza parola che perennemente mi chiama. Una voce ancora ha chiamato: “Sohrab! dove sono le mie scarpe?”
All’alba il salato delle dimensioni della festa ombreggiò il gusto. Il mio riflesso cadde nell’area del calendario: nella curva di quelle infantili oblique linee, sul digradare della quiete di una festa. Esultai: «Oh, che aria eccellente!» Nei miei polmoni c’era l’evidenza delle ali di tutti gli uccelli del mondo. Quel giorno l’acqua, com’era fresca! Il vento era errante come l’ostinazione. Avevo disposto in ordine sulla terra tutti i miei esercizi di geometria. Quel giorno dei triangoli nell’acqua erano affondati. Io ero confuso, saltai sul monte della carta geografica: «Ehi, voi dell’elicottero di soccorso!». Peccato: il disegno della bocca nel passaggio del vento si arruffò. O soffio salato! O tu, la più forte delle forme! Guida l’ombra del bicchiere fino all’arsura di questa sgretolata sincerità!
Passavo dal confine del mio sogno l’ombra oscura di un’edera era ricaduta su tutta questa rovina. Quale impavido vento portò mai il seme di quest’edera nel territorio del mio sogno?
Dietro le vitree porte delle visioni nella palude senza sfondo degli specchi ove morivo un pezzo di me, cresceva un’edera come se attimo dopo attimo si versasse nel mio vuoto ed io nel suono del suo sbocciare attimo dopo attimo morissi me stesso. Crolla il tetto del portico e il ramoscello dell’edera si attorciglia intorno a tutte le colonne. Quale impavido vento portò mai il seme di quest’edera nel territorio del mio sogno?
Crebbe l’edera spuntò il suo ramoscello dal fondo del mio trasparente sogno. fui nella visione arrivò l’alluvione del risveglio. Aprii gli occhi [immersi] nella rovina del sogno: l’edera si era attorcigliata a tutta la mia vita, nelle sue vene, ero io che scorrevo. La sua vita in me aveva radici era tutto me stesso. Quale impavido vento portò mai il seme di quest’edera nel territorio del mio sogno?
Un giorno verrò, e porterò un messaggio. Nelle vene, luce verserò. E alzerò la voce: “O voi le cui ceste sono colme di sogno! Vi ho portato la mela, la mela rossa del sole”. Verrò, darò un gelsomino a un mendicante. Alla bella donna lebbrosa donerò altri orecchini. Dirò al cieco: “Che bel vedere, questo giardino”! Sarò un venditore ambulante girerò i vicoli, griderò: “O rugiada, rugiada, rugiada”! Un passante dirà: “Certo che è una notte tenebrosa”! Gli darò una galassia. Sul ponte c’è una bambina senza gambe le appenderò al collo l’Orsa Maggiore. Ogni insulto dalle labbra reciderò. Ogni muro demolirò. Ai briganti dirò: “E’ arrivata una carovana carica di sorriso”! La nuvola squarcerò. Io annoderò gli occhi col sole i cuori coll’amore le ombre coll’acqua i rami col vento. E unirò il sogno dell’infante col mormorio delle cicale. Innalzerò molti aquiloni. Molti vasi annaffierò. Verrò, ai cavalli, alle mucche, l’erba fresca delle carezze verserò. E la giumenta assetata, il secchio di rugiada le porterò. Un vecchio asino per la strada, le mosche gli scosterò. Verrò su ogni muro, un garofano pianterò. A ogni finestra, una poesia leggerò. A ogni corvo, un pino donerò. Dirò al serpente: “Che splendore ha la rana”! Rappacificherò. Farò fare conoscenza. Camminerò. Luce mangerò. Amerò.
Sollevai la testa: era un’ape che nella mia immaginazione volteggiava o il movimento di una nube che lacerava il mio sogno? In uno spaventoso risveglio sentii una melodia, un marino oscillare, magnifico quanto il tacere di un sassolino e mi alzai dai pressi del tempo. Il grande momento aveva posato silenzio sulle mie labbra. Nel sole dei prati schiuse gli occhi un rettile: i suoi occhi bevvero l’infinità dello stagno. Un falco trascinò a terra l’ombra del suo volo e una colomba nella pioggia del sole era in visione. La spianata dei miei occhi sia il campo della tua parata, o grande panorama! In questo meraviglioso ribollire, dov’è la goccia dell’illusione? Le ali hanno perso l’ombra del volo. Il petalo attende il peso dell’ape. Palpo la freschezza della terra, l’umidità di nessun brivido si posa qui tra le mie dita. Mi avvicino all’acqua corrente, sussurra l’invisibilità dei due limiti. Come una melagrana spaccata i segreti sono sbocciati a metà. Comprendi il germoglio del mio subbuglio o tu, giovane bocciolo presto conosciuto! Lode a te, o diafano attimo! Nella tua infinità volteggia un’ape.
Costruirò una barca, in acqua la getterò. Mi allontanerò da questa terra straniera dove non c’è nessuno che nel boschetto d’amore svegli gli eroi.
La barca è vuota della rete e il cuore del desiderio della perla, continuerò a navigare. Non alle azzurrità legherò il cuore né alle sirene, che alzano la testa fuori dall’acqua, e sulla fulgida solitudine dei pescatori spargono dalle chiome l’incanto.
Continuerò a navigare. Continuerò a cantare: «bisogna allontanarsi, allontanarsi. L’uomo di quella città non conosceva miti. La donna di quella città non era colma quanto un grappolo d’uva. Lo specchio di nessuna sala più ripeteva l’ebbrezze. La pozzanghera neppure rifletteva una luce di fiaccola. Bisogna allontanarsi, allontanarsi. La notte ha cantato la sua canzone, ora è il turno delle finestre». Continuerò a cantare. Continuerò a navigare.
Di là dai mari c’è una città dove le finestre si aprono alla Manifestazione. I tetti sono la dimora di colombe che osservano lo zampillo del senno umano. La mano di ogni bimbo decenne della città, è un ramo di conoscenza. La gente della città guarda a un mangime così come guarda a una fiamma, o a un sogno sottile. La terra sente la musica dei tuoi sensi e il fruscio delle ali degli uccelli del mito si scorge nel vento.
Di là dai mari c’è una città dove la vastità del sole è pari agli occhi dei più mattinieri. I poeti sono gli eredi dell’acqua e dell’intelletto e della luminosità.
Di là dai mari c’è una città! Bisogna costruire una barca.
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