Tra il mio pollice e l’indice sta la comoda penna, salda come una rivoltella. Sotto la finestra, un suono chiaro e graffiante all’affondare della vanga nel terreno ghiaioso: è mio padre che scava. Guardo dabbasso finché la sua schiena piegata tra le aiuole non si china e si rialza come vent’anni fa ritmicamente tra i solchi di patate dove andava scavando. Con lo stivale tozzo accoccolato sulla staffa, il manico contro l’interno del ginocchio sollevato con fermezza, sradicava alte cime e affondava la lama splendente per dissotterrare le patate novelle che noi raccoglievamo amandone tra le mani la fresca durezza. Il mio vecchio potrebbe impugnare una vanga presso Dio, proprio come il suo vecchio. Mio nonno estraeva più torba in un giorno di qualsiasi altro uomo su, alla palude Toner. Una volta gli portai del latte in una bottiglia turata alla meglio con un pezzo di carta. Si raddrizzò e lo bevve, poi subito riprese a lavorare intaccando e dividendo, mentre con piote sulle spalle andava sempre più a fondo in cerca di buona torba. Scavando. L’odore freddo dei solchi di patate, il tonfo e lo schiaffo dell’umida torba, i tagli netti di una lama tra le radici vive si destano nella mia memoria. Ma non ho una vanga per succedere a uomini come loro. Tra il mio pollice e l’indice sta comoda la penna. Scaverò con quella.
Sento la tensione del capestro alla sua nuca, il vento contro il petto nudo. Rende i suoi capezzoli perle d’ambra, scuote la fragile struttura delle sue costole. Vedo il suo corpo annegato nella palude, la pesante pietra, i rametti e i fuscelli galleggianti, sotto cui dapprima era un arboscello scortecciato estratto dalla melma – ossa di quercia, cervello a barilotto, la testa rasata simile a stoppia di granturco, gli occhi bendati da un lino lercio, il cappio un anello per cingere le memorie dell’amore. Piccola adultera, prima che ti punissero avevi capelli biondi come l’oro, eri denutrita e la tua faccia imbrattata di pece era bellissima. Mia povera vittima, quasi ti amo, ma avrei scagliato, lo so, la pietra del silenzio. Io sono l’abile voyeur delle onde scurite ed esposte del tuo cervello, del tessuto ritorto dei tuoi muscoli e di tutte le tue ossa numerate, io che ristetti ammutolito quando le tue sorelle traditrici imbrattate di pece piansero presso il cancello, io che sarei stato complice dell’oltraggio civilizzato, capisco tuttavia l’esatta, tribale ed intima vendetta.
Sono tornato a una lunga spiaggia, la curva martellata di una baia, e trovai soltanto le secolari potenze tuonanti dell’Atlantico. Ho fissato i non magici richiami dell’Islanda, le patetiche colonie della Groenlandia, e all’improvviso
quei favolosi predoni sepolti nelle Orcadi e a Dublino distesi contro le loro lunghe spade arrugginenti, quelli nel solido ventre di navi di pietra, quelli fatti a pezzi e luccicanti nella ghiaia di correnti sgelate erano voci assordate dall’oceano che mi mettevano in guardia, risollevate nella violenza e nell’epifania. La lingua nuotante della nave vichinga veleggiava con il senno del poi – diceva del martello di Thor vibrato su geografia e commercio, di accoppiamenti ottusi e di vendette, di odi e maldicenze, delle antiche assemblee, menzogne e donne, di sfinimenti definiti pace, memoria che incuba il sangue versato. Diceva: “Scendi nel tesoro di parole, scava la tana nella spira e nel bagliore del tuo cervello solcato da rughe. Scrivi nel buio. Attendi l’aurora boreale nel corso della lunga scorreria, ma nessuna cascata di luce. Mantieni limpido il tuo occhio come la bolla d’aria nel ghiacciolo, fidati della percezione di quel nocciolo di tesoro che le tue mani hanno conosciuto”
Non a lungo avrai ancora sete, mio cuore bruciato. C’è una promessa nell’aria, mi soffia contro da bocche sconosciute: il grande fresco viene. A mezzogiorno il mio sole era caldo sopra di me. Benvenuti, voi che venite: voi venti improvvisi, voi freschi spiriti del pomeriggio. L’aria corre straniera e pura. Non mi guarda la notte di lato, con un obliquo sguardo di seduzione? Resta saldo, mio cuore ardito, non chiedere perché. Traduzione di Pino Menzio
Poesia n. 240 Luglio/Agosto 2009 Friedrich Nietzsche. Rovine di stelle a cura di Pino Menzio
E adesso vai, figliolo, corri come il vento, e di’ a tua madre di cercarmi una bolla d’aria per la livella e un nuovo nodo per questa cravatta.” Eppure fu contento, lo so, quando rimasi in campo, rilanciandogli la palla con un sorriso che vinse il suo e la sua ambasciata tranello, in attesa della prossima mossa del gioco.
E qualche volta trovate il tempo di andare in auto ad ovest in County Clare, lungo la Flaggy Shore, a settembre o ottobre, quando il vento e la luce si azzuffano così che da una parte l’oceano è pazzo di schiuma e bagliori, e all’interno fra le pietre la superficie di un lago color ardesia è illuminata dal lampo terrestre di uno stormo di cigni, le piume scompigliate e soffiate, bianco su bianco, le teste adulte dall’aria ostinata sommerse o affioranti o indaffarate sottacqua. Inutile pensare di posteggiare e cogliere la scena più completamente. Non sei né qua né là, una fretta per cui passano cose note e ignote mentre forti morbide folate prendono l’auto di sbieco e sorprendono il cuore sovrappensiero e lo aprono d’un soffio. Traduzione di Massimo Bacigalupo
Poesia n. 240 Luglio/Agosto 2009 I settant’anni di Seamus Heaney a cura di Massimo Bacigalupo
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