In un prato io sono l’assenza del prato. È sempre così. Ovunque io sia sono ciò che manca. Quando cammino fendo l’aria e sempre l’aria rifluisce a colmare gli spazi in cui è stato il mio corpo. Tutti abbiamo motivi per muoverci. Io mi muovo per preservare la compiutezza delle cose.
Penso alle vite innocenti delle persone nei romanzi: sanno che morranno ma non che il romanzo finirà. Come sono diverse da noi. Qui, la luna osserva istupidita, tra nubi sparse, la città assopita, e il vento ammonticchia le foglie cadute, e qualcuno – vale a dire, io – sprofondato in poltrona, sfoglia le pagine che mancano, sapendo che non c’è molto tempo per l’uomo e la donna nella camera a ore, per la luce rossa sopra la porta, per l’iris che proietta la propria ombra sul muro; non molto tempo per i soldati sotto gli alberi lungo il fiume, per i feriti che vengono trasferiti in città di retrovia dove resteranno; la guerra che ha infuriato per anni si concluderà, come pure ogni altra cosa, tranne una presenza difficile da definire, una traccia, come l’odore d’erba dopo una notte di pioggia o quel che resta di una voce che ci fa sapere senza compitarlo di non disperare; se la fine è arrivata, anch’essa passerà. Mark Strand (Summerside, 1934) da L’uomo che cammina un passo avanti al buio (Mondadori, 2011) I think of the innocent lives Of people in novels who know they’ll die But not that the novel will end. How different they are From us. Here, the moon stares dumbly down, Through scattered clouds, onto the sleeping town, And the wind rounds up the fallen leaves, And somebody – namely me – deep in his chair, Riffles the pages left, knowing there’s not Much time for the man and woman in the rented room, For the red light over the door, for the iris Tossing its shadow against the wall; not much time For the soldiers under the trees that line The river, for the wounded being hauled away To the cities of the interior where they will stay; The war that raged for years will come to a close, And so will everything else, except for a presence Hard to define, a trace, like the scent of grass After a night of rain or the remains of a voice That lets us know without spelling it out Not to despair; if the end is come, it too will pass.
Il sole che cala. I tappeti erbosi in fiamme. Il giorno perso, la luce persa. Perché amo quel che svanisce? Tu che te ne sei andata, che te ne stavi andando, che stanze di tenebra abiti? Guardiana della mia morte, preserva la mia assenza. Sono vivo. Mark Strand (Summerside, 1934), da L’uomo che cammina un passo avanti al buio (Mondadori 2011)
Una sera che il prato era verde oro e gli alberi, marmo venato alla luna, si ergevano come nuovi mausolei di strida e brusii di insetti, io stavo sdraiato sull’erba, ad ascoltare le immense distanze aprirsi su di me, e mi chiedevo cosa sarei diventato e dove mi sarei trovato, e quanto a malapena esistessi, per un attimo sentii che il cielo vasto e affollato di stelle era mio, e udii il mio nome come per la prima volta, lo udii come si sente il vento o la pioggia, ma flebile e distante come se appartenesse non a me ma al silenzio dal quale era venuto e al quale sarebbe tornato.
Niente riusciva a fermarti. Non il giorno più bello. Non la quiete. Non l’ ondeggiare dell’oceano. Continuavi a morire. Non gli alberi sotto cui camminavi, non quegli alberi che ti davano ombra. Non il dottore, il giovane dottore dai capelli bianchi che già una volta ti aveva salvato. Continuavi a morire. Niente riusciva a fermarti. Non tuo figlio, Non tua figlia che ti imboccava e ti aveva reso di nuovo bambino. Non tuo figlio che credeva saresti vissuto per sempre. Non il vento che ti strattonava il bavero. Non l’immobilità che si offriva al tuo movimento. Non le scarpe che ti appesantivano. Non gli occhi che si rifiutavano di guardare avanti. Niente riusciva a fermarti. Te ne stavi in camera e guardavi la città e continuavi a morire. Andavi al lavoro e lasciavi che il freddo ti penetrasse i vestiti. Lasciavi trasudare sangue nei calzini. Il volto ti si faceva bianco. La voce ti si spezzava in due. Ti appoggiavi al bastone. Ma niente riusciva a fermarti. Non gli amici che ti consigliavano. Non tuo figlio. Non tua figlia che ti guardava rimpicciolire. Non la stanchezza che viveva nei tuoi sospiri. Non i polmoni che si riempivano d’acqua. Non le maniche che sopportavano il dolore delle braccia. Niente riusciva a fermarti. Continuavi a morire. Quando giocavi con i bambini continuavi a morire. Quando ti accomodavi a pranzo, quando ti svegliavi la notte, bagnato di lacrime, il corpo scosso dai singhiozzi, continuavi a morire. Niente riusciva a fermarti. Non il passato. Non il futuro con il suo bel tempo. Non la vista dalla finestra, la vista del cimitero. Non la città. Non la città orrenda dagli edifici di legno. Non la sconfitta. Non il successo. Non facevi altro che continuare a morire. Avvicinavi l’orologio all’orecchio. Ti sentivi venir meno. Stavi a letto. Ti mettevi a braccia conserte e sognavi il mondo senza te, lo spazio sotto gli alberi, lo spazio in camera tua. gli spazi che si sarebbero fatti vuoti di te, e continuavi a morire. Niente riusciva a fermarti. Non il tuo respiro. Non la tua vita. Non la vita che cercavi. Non la vita che hai avuto. Niente riusciva a fermarti.
Una notte chiara, mentre gli altri dormivano, ho salito le scale fino al tetto della casa e sotto un cielo fitto di stelle ho scrutato il mare, la sua distesa, il moto delle sue creste spazzate dal vento, divenire come pezzi di trina gettati in aria. Sono rimasto nella lunga notte piena di sussurri, aspettando qualcosa, un segno, l’avvicinarsi di una luce lontana, e ho immaginato che tu venivi vicino, le onde scure dei tuoi capelli mescolarsi col mare, e l’oscurità è divenuta desiderio, e desiderio la luce che approssimava. La vicinanza, il calore momentaneo di te mentre rimanevo su quell’altezza solitaria guardando il lento gonfiarsi del mare rompersi sulla riva e in breve mutare in vetro e scomparire… Perché ho creduto che saresti venuta uscita dal nulla? Perché con tutto quello che il mondo offre saresti venuta solo perché io ero qui?
Una sera che il prato era verde oro e gli alberi, marmo venato alla luna, si ergevano come nuovi mausolei di strida e brusii di insetti, io stavo sdraiato sull’erba, ad ascoltare le immense distanze aprirsi su di me, e mi chiedevo cosa sarei diventato e dove mi sarei trovato, e quanto a malapena esistessi, per un attimo sentii che il cielo vasto e affollato di stelle era mio, e udii il mio nome come per la prima volta, lo udii come si sente il vento o la pioggia, ma flebile e distante come se appartenesse non a me ma al silenzio dal quale era venuto e al quale sarebbe tornato.
Fa freddo, la neve è alta, il vento sbatte nella sua gabbia di piante, le nuvole paiono stracci sozzi e laceri per l’uso, e gli storni becchettano il ghiaccio. È il nord, povero nord. Niente va bene. Il capofamiglia è andato al lavoro, vende sedie e sofà in un negozio che sta per fallire. La moglie sta a casa e fissa dalla finestra le piante, cerca di ricordare la vita che ha perso, anche se non era un granché. Fiori bianchi di brina sbocciano sul vetro. È quasi sera. Anatre e oche canadesi dormono sulle acque della baia di Saint Margaret. Marito e moglie passeggiano: guardate come si piegano controvento; alzano il bavero e i minuscoli sbuffi del loro respiro volano via. (in M. Strand, Il futuro non è più quello di una volta, a cura di D. Abeni, Minimum fax, 2006). Ha scritto Giorgio Agamben che la fotografia è «il luogo del Giudizio Universale», perché «rappresenta il mondo come appare nell’ultimo giorno». Credo che la stessa cosa si possa dire di certe poesie: uno sguardo, uno scatto nitido in cui quello che si vede diventa definitivo, indimenticabile. Non solo per gli elementi del quadro, ma anche per il significato che quella scena – minima, quotidiana, tutto sommato banale – assume una volta che qualcuno l’abbia fotografata, trasposta in versi. È il caso di questa poesia di Mark Strand (Canada, 1934), nella bella traduzione di Damiano Abeni: il freddo del nord, persone precarie (un negoziante che sta per fallire, una donna insoddisfatta), delle anatre che dormono, due che passeggiano nel freddo e i loro respiri portati via dal vento: un flash sull’orlo del nulla, della rovina, ma che a questo nulla, a questa rovina si oppone con la forza della sua memorabilità. Massimo Gezzi
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