Se «la concentrazione è la prima qualità dello stile», tu la possiedi. Contrarsi è una virtù com’è una virtù la modestia. Non è l’acquisto d’una cosa qualsiasi che sia solo ornamentale o la qualità secondaria che accompagna qualcosa di ben detto che apprezziamo nello stile, ma il principio nascosto nell’assenza di piedi, «un modo per concludere»; «una conoscenza di princìpi», nel curioso fenomeno del tuo corno occipitale.
Se è inammissibile, anzi letale, essere personali, ed è indesiderabile essere letterali – anche pregiudizievole, se l’occhio non è innocente – questo vuol forse dire che si può vivere solo delle foglie più alte, che son piccole, accessibili solo ad una bestia che sia ben alta? – di cui il miglior esempio è la giraffa – l’animale così poco ciarliero. Quando sia in preda allo psicologico, una creatura riesce insopportabile che poteva riuscire irresistibile; o, per essere esatti, eccezionale, proprio perché assai meno ciarliera di qualche animale aggrovigliato in nodi emozionali. In fondo le consolaioni del metafisico possono essere profonde. In Omero, l’esistenza è incrinata, la trascendenza, condizionale; « il viaggio da peccato a redenzione, interminabile».
Se ‘la concentrazione è il primo dono dello stile’, tu la possiedi. La contrattilità è una virtù, così come modestia è una virtù. Non già l’acquisizione di una cosa qualsiasi capace di adornare, o la qualità incidentale che per avventura si accompagni a qualcosa di ben detto, non questo apprezziamo nello stile, ma il principio nascosto: nell’assenza di piedi, ‘un metodo di conclusioni’; ‘una conoscenza di princìpi’, nel curioso fenomeno della tua antenna occipitale.
Non c’è nulla da dire in tuo favore. Difendi il tuo segreto. Tienilo nascosto sotto la dura scorza di piume, negromante. O uccello, le cui tende sono state “grandi teli di canapa egiziana”, la pallida iscrizione zigzagante della Giustizia – reclina come una danzatrice – potrà mostrare mai il polso della sua sovranità, un tempo così vivida? Tu neghi, e trasmigrando fuori dal sarcofago intessi un silenzio di neve intorno a noi, e con il tuo linguaggio moribondo, zoppo a metà e a metà altero, incedi qua e là. Ibis, noi non troviamo più alcuna traccia di virtù in te – vivo ma così muto. La discrezione ora non è la somma del buon senso che onora lo statista. E se fosse l’incarnazione di una grazia morta? Come se una maschera mortuaria potesse sostituire l’imperfetta eccellenza della vita! Lento a scoprire la dimensione ripida e severa del tuo trono, tu vedrai la forzata distorsione dei sogni suicidi andare vacillando verso se stessa e con il suo becco aggredire la sua stessa natura, fino a quando sembri amico il nemico e l’amico sembri nemico.
Che cos’è la nostra innocenza, che cos’è la nostra colpa? Tutti sono nudi, nessuno è al sicuro. Da dove viene il coraggio: la domanda senza risposta, il dubbio fermo che – chiamando muto, ascoltando sordo – nella sventura, anche nella morte, incoraggia gli altri e nella sua sconfitta esorta l’anima ad essere forte? In profondità vede ed è felice colui che sa arrivare alla mortalità e nella sua prigione si leva al di sopra di sé come il mare nell’abisso, lottando per essere libero e incapace di esserlo, nella sua resa trova la ragione di continuare. Chi ha un forte sentire agisce così. Anche l’uccello, più alto mentre canta, rafforza la sua forma in verticale. Benché prigioniero, con il suo potente canto dice: che bassa cosa la soddisfazione, che pura la gioia. È questa la mortalità, è questa l’eternità. Traduzione di Nicola Gardini
Poesia n. 155 Novembre 2001 New York Anthology a cura di Silvio Ramat, Nicola Gardini, Ezio Savino
Di un impermeabile di cerata, nuovo e lucido, mando a memoria innanzitutto la lunghezza d’onda. Lo stesso di una tenda per la doccia. E quest’enfasi sul giallo non è perché cerco un idraulico o un elettricista, è che trovo che dopo tutto mi sta bene, me lo merito.
Come Pilgrim, costretto ad andar piano a trovare il suo rotolo; stanchi ma pieni di speranza – non essendo speranza la speranza finché non sia svanito ogni motivo di speranza; e indulgenti, pronti a considerare l’errore del proprio simile col cuore di una madre – donna o gatta.
Della luce del sole si può dire più di quanto si dica del linguaggio: ma linguaggio e luce, a vicenda aiutandosi – francese l’uno e l’altra – non han disonorato un aggettivo che rimane ancora radicato. Sì, luce è linguaggio. Libera franca imparziale luce di sole, luce di luna, luce di stelle, luce di faro, sono linguaggio. E il faro di Creach’h d’Ouessant, sulla sua indifesa scaglia di roccia, è il discendente di Voltaire,
Se il giallo simboleggia infedeltà io sono un infedele: a rose gialle non vorrei del male solo perché era tradizionale che il giallo porti male e il bianco bene.
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