Un avamposto di pietra m’era cresciuto nel petto come dolore di un altro che s’infila e forma uncino e piccagli. Io non so cosa sia questa di colpo nostalgia questo pezzo mancante che mi reclama a sé da un umano piangere per niente e non avere dove posare il capo.
Io guardo spesso il cielo. Lo guardo di mattino nelle ore di luce e tutto il cielo s’attacca agli occhi e viene a bere, e io a lui mi attacco, come un vegetale che si mangia la luce.
Noi tutti non siamo solo terrestri. Lo si vede da come fa il nido la ghiandaia da come il ragno tesse il suo teorema da come tu sei triste e non sai perché. Noi tutti, noi forse ritornati, portiamo una mancanza e ogni voce ha dentro una voce sepolta, un lamentoso calco di suono che un po’ si duole anche quando canta. Te lo dico io che ascolto il tonfo della pigna e della ghianda la lezione del vento e il lamento della tua pena col suo respiro ammucchiato sul cuscino un canto incatenato che non esce. Ascoltare anche ciò che manca. L’intesa fra tutto ciò che tace.
Nome che stai al centro, il tuo suono ciocca e s’imperla di voci ma nessuna ti tiene, nessuna ti osa in suoni, in lettera e in cifra. Nelle tue solitudini di mai chiamato. Come tutto è assai strano. A me sembra. Assai strano. Ti piantóno, ti indago, mi avvicino in millimetri. Ti ho nella voce senza che esca in suono.
Ma solo pensare a te. Non è una figura che viene una nitida traccia. È come cadere in un posto con un po’ di dolore. Tu sei il mio tu più esteso deposto sul fondo mio. Tu. Non c’è un’altra forma del mondo che si appoggi al mio cuore con quel tocco, quell’orma. Tu. Tu sei del mondo la più cara forma, figura, tu sei il mio essere a casa sei casa, letto dove questo mio corpo inquieto riposa. E senza di te io sono lontana non so dire da cosa ma lontana, scomoda un poco perduta, come malata. Un po’ sporco il mondo lontano da te, più nemico, che punge, che graffia, sta fuori misura. Mio vero tu, mio altro corpo mio corpo fra tutti mio più vicino corpo, mio corpo destino ch’eri fatto per l’incastro con questo mio essere qui in forma di femmina umana. Mio tu. Antico suono riverberante, antico sentirti destino intrecciato sentire che sei sempre stato, promesso da ere lontane da distanze così spaventose così avventurose distanze da lontananze sacre.
Tu sei sacro al mio cuore. Il mio fuoco brucia da sempre col tuo il mio fiato.
Io parlo delle forze — di correnti sul fondo del mio lago sul fondo del tuo, oscure e potenti, più del tempo dure più dello spazio larghe, ma sottili al nostro sentire, afferrate appena e poi perdute, nel loro gioco.
Che cosa siamo io e te? Che cosa eravamo prima di questo nome? E ancora saremo qualcosa, lo sappiamo e non lo sappiamo, con un sentire che non è intelligente lavorio cerebrale.
Nessuna parte di corpo che muore nessun pezzo umano, nessun arto, nessun flusso di sangue, nessun cuore, nessuno, niente che sia stretto nel giro del sole, niente che sia solo terrestre umano muove il tuo cuore al mio, il mio al tuo, come fossero due parti di un uno.
Allora tu sei la mia lezione più grande l’insegnamento supremo. Esiste solo l’uno, solo l’uno esiste l’uno solamente, senza il due.
Sento il tuo disordine e lo comparo al mio. C’è somiglianza. C’è lo stesso slabbro di ferite identiche. C’è tutta la voglia di un passo largo in una terra sgombra che non troviamo. Sento il tuo respiro schiacciato lo sento somigliante ti sento piano morire come me che non controllo l’accensione del sangue. Anch’io cerco una libertà che mi sbandieri, una falcata perfetta, uno stacco d’uccello dal suo ramo, quando si butta improvviso e poi plana.
C’è nel riso dell’uomo la meraviglia sotto la pelle dei pezzi di pane da mangiare subito si vedono le corde vive nei bracci poi verrà la pioggia a lavare le schiene infilare la tosse nei petti
Io non so se questa mia vita sta spianata su un buco vuoto. Non so se il silenzio che indago è intrecciato alla mia sostanza molle. Io non so se quello che cerco e ho cercato e cercherò, non so se quello che cerco è un insulto a quel vuoto. Non so se questo fatto di non avere un paio di ali, sia premio o castigo, io non so se la polveriera della mia inquietudine sia un trono su cui mi siedo minacciato, se la fuga che a scatti regolari mi pungola, se quel puerile sogno di fuga sia uno sgambetto d’angelo, d’un buffone d’angelo che mi vuole inciampare. Io non so se l’amore sia una guerra o una tregua, non so se l’abbandono d’amore sia una legge che la vita cuce fino al ricamo finale. Io non so che farmene di questi nemici che premono, non so che farmene oggi di questo oggi e me lo ciondolo fra le dita perplesse, non so parlare quello che è sentito nel profondo me, non so parlarlo quell’essere qui presente fra le vite degli altri. Io non so spiegarmi l’imperturbabilità di Dio, e non mi spiego di non udire il suo grave lamento, il suo urlo di collera o d’amore, e non so vederlo che sono in cecità ma vorrei sentirlo almeno piangere come piango io guardando le facce indolorate, guardando le facce con grave malattia terrestre, io non so invocarlo né bestemmiarlo che è troppo nella sottrazione e troppo astratto per i miei chili umani. Io non so forse non voglio consegnarmi negli uffici del mondo, e stare buono nelle sale d’aspetto della vita. Io non so nient’altro che la vita e molte nuvole intorno che me la confondono me la confondono e non so cosa aspetto, cosa sto aspettando in questo sporgermi al tempo che viene. Io non so e vorrei, vorrei, non so stare fuori misura, fuori misura umana, fuori da questa taglia finita. Io non so perché guardando l’acqua del mare mi salta in petto una gioia di figlio con la madre. Non so se questa uscita mia in un secolo a caso, se questo essere qui a casaccio, io non so spiegarmi questa malattia all’attacco del mondo, non so guarire questa malattia che indolora e vorrei sistemare ogni cosa, in un sogno puerile di tregua, in un’arcadia anche retorica, in un dormire abbracciato dei guerrieri che si innamorano. Io non ho capito e dovrei, non ho capito il mondo della vita, io non ho capito la legge sottostante e non ho da fare la consegna a questi eredi cuccioli che aspettano, che esigono da me l’aver capito. Io non so la canzone che spensiera e non so soccorrervi non so pur volendolo con quella forza di cagna che dà il latte, non so soccorrervi nel vostro sbando, io non so farvi un canto della guarigione, non so farvi da balsamo io non so mettervi nel coraggio essenziale, nello slancio, nel palpito. Il mio Graal l’ho ritrovato e perso cento volte. Io non so se le particelle piriche del mio disagio fanno una miccia che incendia. Non so se l’Attila del mondo ha una forza che straborda le mie dita pacifiche, non so se indurlo a guerrigliare, non so se indurlo se sedurlo se ridurlo a sagoma di sogno, non so se alzare bandiera bianca o finirò impantanato nella sua normalità stupefacente, nella sua normalità di Attila che fa terra bruciata, non so se battermi, essere patriota di un’idea sollevata, non so se fare il giuramento alla primavera che dice la sua infiorando e incantando, non so se slanciarmi nel cataclisma barbarico e dare un goccio d’acqua alle bocche screpolate dei fratelli, non so se fare il giuramento a questa tregua domestica, se fare il giuramento delle pance satolle o azionare un voltafaccia che strozza ogni boccone. Non so se nell’uno o nell’altro caso sono salvo, se sono salvo quando viene l’angelo col suo atto d’accusa, e ci condanna ancora ad una logica finanziaria e poi dà l’ordine di sospendere le vite. Io non so se la bellezza è questa accademia di centimetri, se la bellezza, la bellezza è questa carnevalesca decadenza di saltimbanchi, io non mi spiego la crocifissione della grazia, e non mi spiego perché mi trovo qui, in questo covo rivoltato in questa fossa con gli orchi attuali in questo lato barbarico della specie, e non so perché stando ad occidente non si ode quell’alleluia delle cose. Io non so se in questa schiena senza ali ci sono grandi pianure da cui fare il decollo, se in questa spina dorsale ci sono istruzioni per la manovra di decollo, se sono io la freccia di questo arco della schiena, se sono io arco e freccia, non so in quale mano non mano o zampa di Dio mi stanno torchiando, e sottoponendo al duro allenamento dei dolori terrestri. Io non so se la solitudine, se quello strazio chiamato solitudine, se quell’andare via dei corpi cari, se quel restare soli dei vivi, io non so se quel lamento della solitudine, se quel portarci via le facce se quel loro sparire di facce che avevamo dentro il respiro, non so se il dono sia questo portarci via le carezze, questa slacciatura. È poco il poco che so e di questo poco io chiedo perdono. Io chiedo perdono per quello che so, perdono io chiedo per tutto quello che so.
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