Gelide parvenze, la vita acre dei segni conosco. Non è finito lo spazio. Io mi corrompo. Non so l’aurora quale il ladro del tempo rapido senza scampo. È murmure il suo sonno a una risposta a sommo di una tomba nascosta che ti trasporta, e, di trasporto in trasporto, è il suono dell’essere felice, gioia non tersa calma nel suo fondo. E se nel suo velo un corpo dietro un passo senza peso vede, triste io ti domando. I cieli sono sciupati, emersi dentro un raggio. Nell’isola che li contiene è una rondine felice.
I baci, le persiane verdi, verdi alberi modesti, verdi mobili intorno sulle piagge dell’orto. Trepido è un disegno sui tetti. Una corolla scivola su persone morte. Sapevi quanto intatto, leggiadro un desiderio, era colpo di un sogno dischiuso, sogno chiuso leggero di una morte.
L’opera non cade mai, non si frantuma, rimane eterna. Gioiosa o mesta, entusiasta e molteplice, rimanendo immutata ai colpi del tempo, è testimone di un tempo immortale. La sua nuda fronte rimane ferma, soda sotto i raggi del sole che l’indora fra i pollici fissi dell’universo. Da essa a volte cadono scintille che indorano la bruna chioma dei fanciulli che vanno a scuola svegliandoli dal letargo nel primo entusiasmo.
Panorami grandissimi a perdita d’occhio si stendono, s’aprono nuovi orizzonti, si squarciano gole. Noi non sappiamo parlare. Dove siamo andati a cadere? Nel centro alluvionale della terra? L’occhio vacua da orizzonte a orizzonte e si spaura. Per questo siamo nati: per vedere nuovo profondissimo orizzonte, perché la nostra generazione non vada dispersa fra acini, fondi nebulosi, mostri furiosi, i cavalloni del mare. Lottiamo sottoterra e percepiamo.
Con passi lunghi e col ciglio aperto faccio la scalinata grigia dei monti per vedere nuovo bianchissimo orizzonte come nel ciglio dell’anima s’e aperto. L’immensità è quieta, dorme: la trafugo dal dolore umano. Sento la fuga dei rimpianti vaticinare in fondo nel chiuso d’una siepe. Sono col piede chiuso alto sui monti. Parto.
Rimane fra me e te questa sera un dialogo come questo angelo a volte bruno in dormiveglia sul fianco. Non ti domando né questo o quello, né come da materne lacrime si risveglia di notte il tuo pianto. Se i tormenti sono tristi, l’edera non è mattina o si colora. Si vela o duole una viola e dondola nube odorosa su l’orizzonte lucida di brina. Ecco quanto di tanta vana speranza resta o fugge rapida o semplicemente, silentemente accade. I carnosi veli, i velli di bruma, le origini stellate assalgono l’aria, le tumide vene delle vie le ore. Non l’eco rimbalza due volte sulle rocce, su questo prato, ove sono rosse, e, di rosso in rosso, è vano il pallido velluto ora rosa ora smosso. Non si parla né triste né lieto; e presto o tardi, perché a fior di labbro gentilmente nel filo tenue dell’erba tristemente lacerando si risveglia la tua sera accanto, dolcemente io ti domando.
Si raccoglie una luce modesta e trepida leggiadra che ti aspetta o va in frantumi. Ritorna libera a te ritrovato, a caso, nel cielo de l’illusione e sa molte cose sul tuo ciglio asciutto. Le acque ebbero suono e un accorgimento rapido. Non sanno essere velieri e spire mosse del cielo vinto vuoto. Benché il sole arido si versa, io stanco, per virtú dei suoi vezzi, la vena albeggiante, reclina miro; e un ritmo era mellifluo e disadorno. Bianco alito era una donna, nuovo uno screzio era appena o uno spazio serrato umile che dorma.
Dalla riva alta dei fiumi parla una voce, scandisce un silenzio sacro come il primo urlo dei popoli feroci. Il lene vento parla. Una fronda si muove. Un bue lento la bianca anca sommuove. Immagine statuaria che migra dai monti sono. Verso quale nuova riva? In cerca di quali perduti beni? Ciò che ho creato in ordine leggendario si trova. Aspetterò la bianca spetrata notte: verso quali segreti millenni addurrà. Tutto è bianco e opaco. Che non abbia a inaridire la mia anima come la cenere del greto, come la nebbia irta de’ colli. Dall’aere dei colli viene fosca, grigia parvenza di numi. Verso quali beati destini mi chiama?
So, ma non troppo ormai piú di quanto era una volta una vera gioia. Si tocca ora una fiaba. Quanto di essa una staccionata era nell’aria, pure era la febbre. S’intersecò nel cielo, oltre te, un breve alito freddo, un batter folle oltre la tua speranza. Furono pelaghi sinuosamente smossi le nebbie dove andavano i cavalli nell’aria che si arcuò e si addensavano le chiome direttamente a valle, e, presso la riva dei ruscelli, erano fanciulli nell’autunno che fu simile a un addio.
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