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Lettere

Jusitn Wandja

Jusitn Wandja

 

Figlio mio,
ogni giorno rileggo le lettere che scrivi,
ma da due anni ormai non odo la tua voce,
e l’ultimo ricordo che ho delle tue mani
fu quando mi stringesti e mi dicesti: «Addio».

«Ragazzo mio», ti dissi, «perché vuoi abbandonare
così la famiglia, la tua gente, la tua terra?
Sempre da tua madre hai trovato un riparo,
un piatto di fonio
un letto se eri stanco.

Con Oko’o ballavi alla festa del villaggio,
i suoi sguardi e il suo sorriso non eran che per te.
Vedi i tuoi fratellini, tu sei la loro guida».

Mi rispondesti: «Mamma, qui per me non c’è futuro,
l’avvenire è in Occidente, là è possibile avanzare:
andrò a Roma, terra di storia e civiltà:
i cristiani accoglieranno i fratelli africani.

Studierò duramente, troverò un buon lavoro
e a te e ai miei fratelli non mancherà più nulla.
Figlio mio, quel che ci manca è solo il tuo sorriso,
il tuo passo gioioso quando andavi nei campi,
le tue storie e i tuoi canti la sera attorno al fuoco.
E quando in quel paese di storia e civiltà
avrai finito i tuoi studi, trovato il tuo lavoro,
ricordati di noi, e torna alla tua terra
d’Africa.

Madre mia.

Non posso più mentirti, il mio rimpianto è grande,
nel mio pensiero tornano sempre le tue parole,
e il ricordo del paese e della nostra gente
lascia spesso il mio cuore malato di nostalgia.

Questa terra promessa, questa terra sognata,
agognata, e che tanti sogneranno ancora
si è mostrata ingrata coi suoi fratelli stranieri
ed il suo freddo penetra nel corpo e nell’anima.

Passo le mie giornate – ed è un dolore dirlo
a te, madre mia cara – solitario, vagando
per strada, senza meta, senza un posto dove stare,
fra la gente che guarda, diffidente o incuriosita.

Noi siamo gli stranieri, noi siamo i vagabondi,
senza casa, lavoro, senza una famiglia,
senza le carte in regola, senza nessun diritto,
nemmeno quello di non essere uccisi impunemente.

Come vorrei tornare nella mia terra avita,
ballare con Oko’o alla festa del villaggio,
giocare coi miei fratelli, raccontare loro storie,
e cantare la sera attorno al focolare.

Ma ho vergogna ora a mendicare un passaggio
e tornare alla mia gente sconfitto ed avvilito.
Madre, perdonami, preferisco restare
dove nessuno mi conosce, in questa fredda terra
d’Europa.