Per noi fu d’improvviso giorno quando dal vischio uscimmo della vergogna; tu scendevi la notte partigiano alla casa sicura di cibo ed io, bambina, stropicciandomi gli occhi oscuramente ti sentivo padre della mia libertà. Risalivi in collina col mitra portando piccole lotte sognate, velleità di vecchi e ragazzi: altro non chiedevamo, allora, che ritrovarci lassù quando il gallo frantumando la notte altre attese brevi porgeva e nell’aria allegre andavano canzoni.
Respingo pregiudizi secolari, ricevo visite, lavoro e faccio spesa, sorsi di tenerezza dono all’albero ricco del mio sangue e intanto fino in fondo vivo questa morte nata con me ———- (nel continuo mutamento sempre me stessa ———- con le cose che amo creo la bellezza, ———- con quelle in cui credo libertà) Ma la sera una teoria di pietrose tastiere è bersaglio dolente per me sola mentre un’ala di gabbiano canuto oltre le sartie ferme del tempo mi germina infinite dimensioni scavando guance dal gemito roco ———- (non chiedetemi mai perché le scriva ———- queste cose totali dissepolte ———- ai margini dell’umana solitudine) Poi il vento che scava finestre riaccende un fumido faro per chi — come me — rimane ———- alla soglia
Nell’allucinato plenilunio ———- la mia gazzella muove ———- leggera ———- per dirupati anfratti ———- a sterrare speranze sepolte ———- in cui morire. Ma quell’utopia suicida ———- è sale della terra, ———- è tremolante torcia ———- che illumina la storia ———- ben sapendone ———- il cieco disamore.
«… e ci saranno strofe d’amore che già sanno a memoria le case» (F. Garcìa Lorca) Già si spensero i vetri affocati del tramonto nelle stradette brevi della città ritorta verso un cielo in salita con esili braccia di pietra e il suo volto fasciato di silenzi prepara asfodeli di riso notturno tra rari lampioni e antiche ombre Sulla fragilità del marciapiede risuona il passo mio vagante dietro immagini sepolte all’arco del tempo incorruttibile: mi perdo in questo gioco estenuante che sempre cede il posto alle domande (dove vita s’annida batte ora un pipistrello cieco come pensiero inquieto ed assonnato)
Una traccia iridata sopra i vetri ridendo lentamente muore — la mia presenza non è necessaria alla festa finale della pioggia ma dentro qualcosa che grida vuole uscire dal mite vortice d’ombra: tutto questo presente sparirà – tutto è e si disfa — come te anima mia che passi le vetrate per raspare il muro — ogni aria di ruggine o d’asfalto al delicato fiuto fatta vana. ———- Dov’è che vai — se tu stessa ———- ritorni e non ti fermi ———- anima sempreviva, intenerita: ———- passeggia a lungo — dopo si vedrà da MENO MALE
la notte ha ormai lunghe dita è tempo di pioggia e di vento, nei cesti noci funghi castagne quassù nelle case già s’accendono fuochi e tutto muta o s’avvita al sole sbiancato, luce di questa stanchezza stranita dove niente va perso, niente di lucida vita
Nei tuoi occhi s’arrotolano gridi ombre mobili di plenilunio ghiacciato alberi secchi e mutilati fiori: tu stai alle regole del gioco e fingi d’esplorare ancora ma altro tempo — felice — frastorna la memoria e già ogni esilio s’innerva nel tuo sguardo, ogni paura antica da LA CASA DI LIDE «…il punto tra memoria e desiderio si sposta, è alla deriva di un gorgo…» (Mario Luzi) E nel quasi-svegliarsi nella non-consistenza al di qua della soglia giovane ancora pensarsi con l’oro il riso la voglia ———- non capire nel grigio ———- confuso se è giorno di già ———- o speranza di alba ———- che neghi ———- quest’altra reale ———- barbarica età «Ecco, qualcuno ci dice: sì, tu mi entri nel sangue… Che giova, egli non può trattenerci, noi svaniamo in lui e intorno a lui…» (Rainer Maria Rilke) Per una volta entrare nell’altro che adesso in mezzo alla strada mi parla ——- — scambiare il mio sé col tuo io ———- i ricordi la pelle la bocca — vedere le cose diverse amarmi da fuori di fronte però chissà se il tuo io mi va stretto se l’occhio s’è accorto del glicine timido sulla ringhiera ——- — un universo tra plastiche stanche — di un gatto che passa col rosso di me che tremo per lui ———- che semino idee sull’asfalto ———- consumo parole nell’aria ———- facendo l’amore col vento… Ma almeno una volta più bello sarebbe scambiare la vita aprire una porta di un altro il sorriso sapere ——- — di un’altra pietà — LA LUCE
Angoli acuti, spigoli, asettici fonemi, occhi che fuggono su labbra sibilanti, paura di specchiarsi nella gemella freddezza da obitorio del vicino. Proibito ridere di niente, leccarsi le ferite apertamente, proibito essere veri nella lebbra scura del conformismo. La mia quieta colpa è la difformità dell’innocenza. da POSTILLE AL NECESSARIO
in noi una strana terra di nessuno che protegge le idee, le emozioni: qui aspettano a lungo la parola bella che le affranchi, ma quale lingua diversa, misteriosa, lì si dipana o si aggruma, quale respiro di libertà e di nascosto fuoco dilaga all’improvviso… Nasce un linguaggio nuovo, inaspettato o forse addirittura altro che per un attimo almeno attinge alla tua umanità e ti porta lontano dall’ottusa gravità della materia, dell’avere, del tempo: tutto questo forse un giorno si chiamerà poesia
Luce di marzo che gioca su di te, strade di luce calpestate dal sole ed io impotente appendice presa dall’ombra. ———- Nel lago mansueto dei tuoi occhi ———- si specchiano mille ipotesi d’amore, ———- preludi di parole indugiate ———- al brivido breve che mi coglie ———- sapendo che addosso ho solo ———- la povertà di me stessa.
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