Il libro è un ventaglio di analogie. La memoria è una lingua di mare: avanza, indietreggia, accarezza la sabbia, ispeziona le orme dei passi non dichiarati… Figlio di un frontespizio, anch’io come tanti, mi vergogno di spogliare gli affetti. La coscienza mi invita a sigillare il carattere nel guscio anonimo di un cofanetto usurpato dalle allusioni… Il ventaglio si apre e si chiude come una preghiera sussurrata nel buio alla presenza di un testimone che ascolta e traduce le assonanze amorose… da STATUE
Ali povere. Per non dire concrete. Volano sopra i ricordi, sopra l’inchiostro anemico dei documenti. Chi vola lascia cadere una firma, una sterile interiezione sulla topografia romanzata delle storie a noleggio…
Non scrivono. Aspettano che la volontà piova dal cielo, che l’aria primaverile risvegli le smanie segrete… Anche le pagine hanno bisogno di respirare dopo un ciclo di inverni possessivi e dogmatici come i canoni imposti ai poeti dal sadismo dei lettori all’antica… da EMBRIONI
Believe me, the best prize is a calm awakening, an unforeseen stop on the edge of a symbolic world – only clouds,, no words, stubborn explanations on the conjugations of being that gladly hide under the pillow ignoring the slaps of secular juries…
Disordine nella bellezza. Disordine nella vecchiaia. Lo sguardo si specchia nelle parole, onde della memoria, tremolii, balbettii, bestemmie velate e poi preci, atti di contrizione, spunti rapidi di riflessione, di rinuncia, di attesa… Gli appunti hanno il decoro del vecchio che riceve i parenti, una volta alla settimana. Il malessere si converte alla stasi. Il turbamento si rassegna alla sintesi dei commenti: ma che bello, che giovane, che disgrazia invecchiare e leggere la propria vecchiaia a chi conta i minuti che volano tra il benvenuto e il congedo… “SILLABE INDIPENDENTI”
Voleva essere un aforisma e la stanchezza l’ha convertito al mistero… Voleva essere un’abitudine, una macchia in un mare di panna… E il cielo ha trasmesso un ricamo di nuvole… Voleva essere una postilla. E la rima è spuntata – nel cuore del testamento – in punta di prosa per non svegliare il censore, l’esegeta che dorme come l’angelo del primo dono. “BLADES OF GRASS”
La memoria è un’orchestra o una corda tradita. Il pulpito e il podio hanno l’altezza dei simboli, l’inchiostro dei paradossi… Troppo alti per ascoltare la terra… Troppo bassi per orchestrare i sussurri e le nuvole indipendenti…
“La tristezza è un malanno, un peccato mortale, uccide l’anima, mortifica il corpo.” Mi scuso e giustifico: “l’ora triste non dipende dalla mia volontà, è il frutto di muti disagi che umiliano il canto e offendono la memoria…” “Ognuno riceve il suo piccolo sole: si accende e si spegne senza disturbare le mani, rischiara il diario invisibile, lo straccia, lo abbaglia, lo brucia incolpando la luna o la lampada da comodino, testimone, gendarme delle tue veglie.”
Le mani tremano come bambine spaventate dal ritmo delle prime emozioni. La sera placa gli affanni e i tremori superflui. La notte è un palcoscenico di carezze all’amico che legge e ringrazia con la pazienza di una cara elusione: “per leggerti, ci vuole una vita, il mio giudizio, lo troverai in Paradiso…”
Le nuvole e le faville vanno agli eredi lontani – eredi di un verso, di una lacrima riguardosa – di uno sguardo enigmatico come le cime che si schermiscono come vecchie bambine mentre la cartolina lavora – quinta insensibile – nel palcoscenico delle scadenze.
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