L’io che ero io a sedici anni io dico: era, è stato. E vide, crebbe, disse. E tutto è dentro me, ov’è uno spazio grande adatto per il gioco. E lui ci gioca a rimpiattino: fa smorfie, si sottrae. Minuscolo se n’esce da uno sbuffo del paltò. Cigliato protozoo. Millepiedi incapsulato. Ben leggibile mi tocca e durevole nell’ambra il cartiglio con su scritto HAI TRADITO. Giovanni Turra (Mestre, 1973), dallibro ineditoCon fatica dire fame (poesie sparse 2005-2011)
Sfondare con il pugno il muro tramezzo del tempo. Farne di poi scacchiera con i pezzi ˗ o collare orrido di viti, utensìle da norcino. Se qualcuno ti vede per la strada è come sempre mentre muovi da solo verso casa.
Il futuro è appena più in là, oltre la data di scadenza del cartone delle uova – quel giorno tatuato in grassetto e nero. Nessuna cosa nuova nei discount poté mai avere inizio: mutare forma la materia, il latte cagliare, gettare le patate i propri butti. E finisce per stremarti questo venir meno delle idee. A capo chino sopra la vaschetta del frigo, e genuflesso, mentre disponi nei suoi scomparti la tua spesa, ecco ti scoppia nel cervello un lampo senza aloni. Giovanni Turra (Mestre, 1973) da Condòmini e figure in Poesia contemporanea. Nono quaderno italiano (Marcos y Marcos, 2007)
Alto gesticola lo studente ossequioso e tutto preso, a poterlo con la mano cavare dalla fronte quel nome dannato che non viene. A mo’ di turpiloquio gli si rompe la frase ciondoloni nella bocca: il ‘ma-come-si-chiama’ vale cazzo, vuol dire sfiga, si fotta, ‘fanculo. Di poi si tace, ed è la fine. Con dolente fissità lo guato, qua e là squarciata da occhiate circospette: sono il cannibale che vigila il cadavere di Cook. Giovanni Turra (Mestre, 1973) da Con fatica dire fame (La vita felice, 2014)
Paese Paese rùspego de burigòt, de onbrìa umida e petadiza, ingatedamènt cròt đe pòrteghi e cortivi fin a tariói alti stusadi, ndove che mi vae a scur, rùmola de la piera, ndove che fraze, zinìs-cio de calzina, ndove che vae in zerca strac de udor vèci, scròc, susuri, lumin… pèrs in ti, no pose, no vui scanpar, inprésteme ‘n ciaro, an ciaro sol te sto scur tendro e fis, sol lèđer al me nàser te la to mort, al me morir tel to ultimo vìver, te la luna smarida đe le piere, paese meo s-cèt de masiere. Luciano Cecchinel (Revine-Lago, 1947), daAl tràgol jért(Scheiwiller 1999) Paese. Paese scabro di vicoli diroccati, / di ombra umida e attaccaticcia, / groviglio malato / di portici e cortili / fino a piccoli altari alti spenti, / dove io vado al buio, / talpa della pietra, / dove rovisto, / muschio di calcina, / dove vado alla ricerca stanco di odori vecchi, / crocchi, sussurri, lumini… / perso in te, non posso, non voglio fuggire, / prestami una luce, una luce solo / in questa oscurità tenera e fitta, / solo leggere il mio nascere / nella tua morte, / il mio morire nel tuo ultimo vivere, / nella luna sbiadita delle pietre, / paese schietto di macerie. Nel descrivere i luoghi intorno a sé, nello spazio del suo orizzonte visibile e vivibile, Luciano Cecchinel ragiona sul senso del proprio essere lì e non altrove. E tuttavia, pur avvertendo il proprio ambiente con forza appassionata, quale forma d’identità cui non poter rinunciare senza essere cancellato dal piano della storia, vi sperimenta fin da giovanissimo una devastante impossibilità di certezze. È questa la posizione fondamentale occupata dal poeta e costantemente ripetuta nella sua opera, in dialetto e in lingua: l’orrore di camminare su un suolo cavo e pieno di agguati, il continuo avvertimento d’una regione dell’essere tanto più nascosta quanto più prossima a noi. Nel testo che segue, tratto daAl tràgol jért(Milano, Scheiwiller 1999), la sua raccolta d’esordio, Cecchinel sfrutta le potenzialità fonico-ritmiche della parlata di Revine-Lago, mai tentate prima, affidandosi alla capacità generativa di quei suoni: l’uso insistito dei monosillabi e delle tronche in consonante, speculari alla natura scheggiosa dei suoi materiali, rende al meglio l’angosciosa difficoltà dell’esistere e del dirsi. (Giovanni Turra)
Muovi nell’erba senza far rumore. Una minuscola isola d’insetti d’un tratto cessati. Intorno alla mole adesso senza più corpo della casa. E le vocine di nuovo ancora, e l’ombra gialla fina. Infima vigile subitaneità. Giovanni Turra (Mestre, 1973), inedito
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