Vivo, stando in campagna, la mia morte. Appeso a trespoli, aiole, alle radici del glicine, ai raggi della ruota, aspetto (il barattolo del nescafè a portata di mano, l’acciarino fra le dita del piede) che l’arcangelo Calabresi scenda a giudicarmi. da ALTRI SONETTI
Solo qualche parola, solo una notizia sul rovescio del conto sbagliato dal padrone. Forse è tardi, può darsi che la ruota giri troppo in fretta perché resti qualcosa: occhi squartati, teste di cavallo, bei tempi di Guernica. Qui i frantumi diventano poltiglia. E anch’io che ti scrivo da questo luogo non trasfigurato non ho frasi da dirti, non ho voce per questa fede che mi resta, per i fiaschi simmetrici, le sedie di paglia ortogonali, non ho più vista o certezza, è come se di colpo mi fosse scivolata la penna dalla mano e scrivessi col gomito o col naso.
Non sospendi un terremoto, non fermi la deriva dei continenti; e uguale successo avrà chi soffre il capitale e per avversare i suoi non eterni nè imperscrutabili disegni sale fiducioso su navicelle inermi contro le sue corazzate, o in interni sabotaggi s’avventura. Eh! a che vale, colombelle mie? Tanto durerà quanto deve, non un giorno di meno, a nostro cupo scorno – ma nemmeno uno di più. La festa si farà senza di noi, poveri untori senza pestilenza, solchi senza semenza.
Non di questo presente ora bisogna vivere – ma in esso sì: non c’è modo, pare, d’averne un altro, non c’è chiodo che scacci questo chiodo. Nè a chi sogna va meglio, che le più volte si infogna a figuararlo, e fa più groppi al nodo se cerca di disfarlo (sta nel todo che si crede nel nada, sempre) o agogna, ma con che lama? troncarlo. La mente infortunata non ha altra fortuna, dunque, che nel pensiero? Certo a niente più la mia si consola che se in una deposizione o un offertorio gente dispersa solennemente s’aduna.
Silenzio. Udite. Io annuncio la sua morte perchè sono di fronte a voi l’autore della sua venuta e dei suoi giorni disastrosi. Oh fossi morto prima, nel deserto, come muoiono i cammelli che si fidano troppo del proprio gozzo! Io così della mia memoria, della memoria che Dio mi concede sulle cose future. Io non volevo ucciderlo ma la mia fede si è tramutata in pietra o coltello, ———— [ il mio battesimo in violento scorpione. Mi perdoni se troppo poco ho peccato! Io fiorisco di colpa come la Vergine è fiorita in lui nel grembo involontario. da CADENZE D’INGANNO
Una, improvvisamente s’alza dal letto dicendo “questo non si può fare”, E s’agita, tira fuori roba dai cassetti nello spazio impiccato tra comò e attaccapanni, a momenti fa cadere la lampada, il catino – e fiera nelle sue scarpe davanti allo specchio dove affiora la nebbia, ogni tanto toccandoli col palmo della mano infone il fissatore-insetticida sui capelli.
Come cieco, con ansia, contro il temporale e la grandine, una dopo l’altra chiudevo sette finestre. Importava che non sapessi quali. Solo all’alba, tremando, con l’orrenda minuzia di chi si sveglia o muore, capisco che ho strisciato dentro il solito buio, via san Gregorio primo piano. Al di qua dei miei figli, di poter dare o prendere parola.
Queste strade che salgono alle mura non hanno orizzonte, vedi: urtano un cielo bianco e netto, senz’alberi, come un fiume che volta. dei signori e dei cani. Da qui alle processioni che recano guinzagli, stendardi reggendosi la coda ci saranno novanta passi, cento, non di più: però più giù, nel fondo della città divisa in quadrati (puoi contarli) e dolce come un catino… e poco più avanti la cattedrale, di cinque ordini sovrapposti: e proseguendo a destra, in diagonale, per altri trenta o quaranta passi – una spanna: continua a leggere come in una mappa – imbocchi in pieno l’asse della piazza costruita sulle rocciose fondamenta del circo romano grigia ellisse quieta dove dormono o si trascinano enormi, obesi, ingrassati come capponi, rimpinzati a volontà di carni e borgogna purché non escano dalla piazza! i poveri della città. A metà tra i due fuochi lì, tra quattrocento anni impiantano la ghigliottina. da GESTA ROMANORUM
Che in tutto fra tutte suprema sia la legge del mercato, che a lei deva subordinarsi restando utopia per sempre tutto quello che solleva l’uomo da se stesso sembra alla mia mente quasi incredibile. Ma alleva menti per crederci l’economia trionfante, fa che ciascuna s’imbeva di quel credo miserabile e creda a esso fieramente come al più santo vangelo; e non ha scampo chi rimpianto dell’altro s’ostina finchè non ceda di schianto il cuore a provare e di noia trema dove per altri è ottusa gioia. da CANZONETTE MORTALI
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