T’amo, o pio bove; e mite un sentimento Di vigore e di pace al cor m’infondi, O che solenne come un monumento Tu guardi i campi liberi e fecondi, 0 che al giogo inchinandoti contento L’agil opra de l’uom grave secondi: Ei t’esorta e ti punge, e tu co ‘l lento Giro de’ pazienti occhi rispondi. Da la larga narice umida e nera Fuma il tuo spirto, e come un inno lieto Il mugghio nel sereno aer si perde; E del grave occhio glauco entro l’austera Dolcezza si rispecchia ampio e quieto Il divino del pian silenzio verde.
Co ‘l raggio de l’april nuovo che inonda Roseo la stanza tu sorridi ancora Improvvisa al mio cuore, o Maria bionda; E il cuor che t’obliò, dopo tant’ora Di tumulti oziosi in te riposa, O amor mio primo, o d’amor dolce aurora. Ove sei ? senza nozze e sospirosa Non passasti già tu: certo il natio Borgo ti accoglie lieta madre e sposa; Ché il fianco baldanzoso ed il restio Seno a i freni del vel promettean troppa Gioia d’amplessi al marital desio. Forti figli pendean da la tua poppa Certo, ed or baldi un tuo sguardo cercando Al mal domo caval saltano in groppa. Com’eri bella, o giovinetta, quando Tra l’ondeggiar de’ lunghi solchi uscivi Un tuo serto di fiori in man recando, Alta e ridente, e sotto i cigli vivi Di selvatico fuoco lampeggiante Grande e profondo l’occhio azzurro aprivi! Come ‘l ciano seren tra ‘l biondeggiante Òr de le spiche, tra la chioma flava Fioria quell’occhio azzurro; e a te d’avante La grande estate, e intorno, fiammeggiava; Sparso tra’ verdi rami il sol ridea Del melogran, che rosso scintillava. Al tuo passar, siccome a la sua dea, Il bel pavon l’occhiuta coda apria Guardando, e un rauco grido a te mettea. Oh come fredda indi la vita mia, Come oscura e incresciosa è trapassata! Meglio era sposar te, bionda Maria! Meglio ir tracciando per la sconsolata Boscaglia al piano il bufolo disperso, Che salta fra la macchia e sosta e guata, Che sudar dietro al piccioletto verso! Meglio oprando obliar, senza indagarlo, Questo enorme mister de l’universo! Or freddo, assiduo, del pensiero il tarlo Mi trafora il cervello, ond’io dolente Misere cose scrivo e tristi parlo. Guasti i muscoli e il cuor da la rea mente, Corrose l’ossa dal malor civile, Mi divincolo in van rabbiosamente. Oh lunghe al vento sussurranti file De’ pioppi! oh a le bell’ombre in su ‘l sacrato Ne i dí solenni rustico sedile, Onde bruno si mira il piano arato E verdi quindi i colli e quindi il mare Sparso di vele, e il campo santo è a lato! Oh dolce tra gli eguali il novellare Su ‘l quieto meriggio, e a le rigenti Sere accogliersi intorno al focolare! Oh miglior gloria, a i figliuoletti intenti Narrar le forti prove e le sudate Cacce ed i perigliosi avvolgimenti Ed a dito segnar le profondate Oblique piaghe nel cignal supino, Che proseguir con frottole rimate I vigliacchi d’Italia e Trissottino.
Qual da gli aridi scogli erma su ‘l mare Genova sta, marmoreo gigante, Tal, surto in bassi dí, su ‘l fluttuante Secolo, ei grande, austero, immoto appare. Da quelli scogli, onde Colombo infante Nuovi pe ‘l mar vedea mondi spuntare, Egli vide nel ciel crepuscolare Co ‘l cuor di Gracco ed il pensier di Dante La terza Italia; e con le luci fise A lei trasse per mezzo un cimitero, E un popol morto dietro a lui si mise. Esule antico, al ciel mite e severo Leva ora il volto che giammai non rise, —Tu sol—pensando—o ideal, sei vero.
O tu che dormi là su la fiorita collina tosca, e ti sta il padre a canto; non hai tra l’erbe del sepolcro udita pur ora una gentil voce di pianto? È il fanciulletto mio, che a la romita tua porta batte: ei che nel grande e santo nome te rinnovava, anch’ei la vita fugge, o fratel, che a te fu amara tanto. Ahi no! giocava per le pinte aiole, e arriso pur di vision leggiadre l’ombra l’avvolse, ed a le fredde e sole vostre rive lo spinse. Oh, giù ne l’adre sedi accoglilo tu, chè al dolce sole ei volge il capo ed a chiamar la madre.
Tu parli; e, de la voce a la molle aura lenta cedendo, si abbandona l’anima del tuo parlar su l’onde carezzevoli, e a strane plaghe naviga. Naviga in un tepor di sole occiduo ridente a le cerulee solitudini: tra cielo e mar candidi augelli volano, isole verdi passano, e i templi su le cime ardui lampeggiano di candor pario ne l’occaso roseo, ed i cipressi de la riva fremono, e i mirti densi odorano. Erra lungi l’odor su le salse aure e si mesce al cantar lento de’ nauti, mentre una nave in vista al porto ammàina le rosse vele placide. Veggo fanciulle scender da l’acropoli in ordin lungo; ed han bei pepli candidi, serti hanno al capo, in man rami di lauro, tendon le braccia e cantano. Piantata l’asta in su l’arena patria, a terra salta un uom ne l’armi splendido: è forse Alceo da le battaglie reduce a le vergini lesbie?
Lina, brumaio torbido inclina, Ne l’aer gelido monta la sera: E a me ne l’anima fiorisce, o Lina, La primavera. In lume roseo, vedi, il nivale Fedriade vertice sorge e sfavilla, E di Castalia l’onda vocale Mormora e brilla. Delfo a’ suoi tripodi chiaro sonanti Rivoca Apolline co’ nuovi soli, Con i virginei peana e i canti De’ rusignoli. Da gl’iperborei lidi al pio suolo Ei riede, a’ lauri dal pigro gelo: Due cigni il traggono candidi a volo: Sorride il cielo. Al capo ha l’aurea benda di Giove; Ma nel crin florido l’aura sospira E con un tremito d’amor gli move In man la lira. D’intorno girano come in leggera Danza le Cicladi patria del nume, Da lungi plaudono Cipro e Citera Con bianche spume. E un lieve il séguita pe ‘l grande Egeo Legno, a purpuree vele, canoro: Armato règgelo per l’onde Alceo Dal plettro d’oro. Saffo dal candido petto anelante A l’aura ambrosia che dal dio vola, Dal riso morbido, da l’ondeggiante Crin di viola, In mezzo assidesi. Lina, quieti I remi pendono: sali il naviglio. Io, de gli eolii sacri poeti Ultimo figlio, Io meco traggoti per l’aure achive: Odi le cetere tinnir: montiamo: Fuggiam le occidue macchiate rive, Dimentichiamo.
No, forme non eran d’aer colorato né piante garrule e mosse al vento: ninfe eran tutte e dee. E quale iva salendo volubile e cerula come velata emerse Teti da l’Egeo grande a Giove: e qual balzava da la palpitante scorza de’ pini rosea, I’agil donando florida chioma a l’aure: e qual da la cintura d’in cima a’ ghiacci diasprati sciogliea, nastri d’argento, le cascatelle allegre. Sola in vett’a un gran masso di quarzo brillante al meriggio in disparte sedevi, Lorely pellegrina : solcavi l’aurea chioma con l’aureo pettine, lunga la chioma iva per l’alpe, vi ridea dentro il sole. In un tempio a larghe ombre di larici acuti le Fate stavan, occhi fiammanti ne la gemma de’ visi: serti di quercia al crine su le nere clamidi nero, scettri avean d’oro in mano: riguardavano me. Orco umano, che sali da’ piani fumanti di tedio, noi la ti demmo : aveva gli occhi color del mare. Or tu ne vieni solo. Che festi di nostra sorella? I’hai divorata?- E fise riguardavan pur me. No, temibili Fate, no, soavi ninfe, lo giuro: ella è volata fuori de la veduta mia. Ma la sua forma vive, ma palpita l’alma sua vita ne le mie vene, in cima de la mia mente siede. Con la imagine sua dinanzi da gli occhi tuttora che mi arde, con la voce che dentro il cor mi ammalia, suono di primavera su ‘I tepido aprile dormente, erro soletto il mondo, tutto di lei l’impronto. Ecco, voi Fate e ninfe, paretemi, e siete, lei sola: anzi in mia visïone v’ho create io di lei. Ma ella dove esiste? – Lamenti scoppiarono, e via sparver le ninfe in aria, via sotterra le Fate. E vidi su gli abeti danzar li scoiattoli, e udii sprigionate co’ musi le marmotte fischiare. E mi trovai soletto là dove perdevasi un piano brullo tra calve rupi: quasi un anfiteatro ove elementi un giorno lottarono e secoli. Or tace tutto: da’ pigri stagni pigro si svolve un fiume : erran cavalli magri su le magre acque: aconìto, perfido azzurro fiore, veste la grigia riva.
Corron tra ‘l Celio fosche e l’Aventino le nubi: il vento dal pian tristo move umido: in fondo stanno i monti albani bianchi di nevi. A le cineree trecce alzato il velo verde, nel libro una britanna cerca queste minacce di romane mura al cielo e al tempo. Continui, densi, neri, crocidanti versansi i corvi come fluttuando contro i due muri ch’a piú ardua sfida levansi enormi. – Vecchi giganti, – par che insista irato l’augure stormo – a che tentate il cielo? – Grave per l’aure vien da Laterano suon di campane. Ed un ciociaro, nel mantello avvolto, grave fischiando tra la folta barba, passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco, nume presente. Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti e de le madri le protese braccia te deprecanti, o dea, da ‘l reclinato capo de i figli: se ti fu cara su ‘l Palazio eccelso l’ara vetusta (ancor lambiva il Tebro l’evandrio colle, e veleggiando a sera tra ‘l Campidoglio e l’Aventino il reduce quirite guardava in alto la città quadrata dal sole arrisa, e mormorava un lento saturnio carme); Febbre, m’ascolta. Gli uomini novelli quinci respingi e lor picciole cose: religïoso è questo orror: la dea Roma qui dorme. Poggiata il capo al Palatino augusto, tra ‘l Celio aperte e l’Aventin le braccia, per la Capena i forti omeri stende a l’Appia via.
I cipressi che a Bólgheri alti e schietti Van da San Guido in duplice filar, Quasi in corsa giganti giovinetti Mi balzarono incontro e mi guardar. Mi riconobbero, e— Ben torni omai — Bisbigliaron vèr’ me co ‘l capo chino — Perché non scendi ? Perché non ristai ? Fresca è la sera e a te noto il cammino. Oh sièditi a le nostre ombre odorate Ove soffia dal mare il maestrale: Ira non ti serbiam de le sassate Tue d’una volta: oh non facean già male! Nidi portiamo ancor di rusignoli: Deh perché fuggi rapido cosí ? Le passere la sera intreccian voli A noi d’intorno ancora. Oh resta qui! — — Bei cipressetti, cipressetti miei, Fedeli amici d’un tempo migliore, Oh di che cuor con voi mi resterei— Guardando lor rispondeva — oh di che cuore ! Ma, cipressetti miei, lasciatem’ire: Or non è piú quel tempo e quell’età. Se voi sapeste!… via, non fo per dire, Ma oggi sono una celebrità. E so legger di greco e di latino, E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú: Non son piú, cipressetti, un birichino, E sassi in specie non ne tiro piú. E massime a le piante. — Un mormorio Pe’ dubitanti vertici ondeggiò E il dí cadente con un ghigno pio Tra i verdi cupi roseo brillò. Intesi allora che i cipressi e il sole Una gentil pietade avean di me, E presto il mormorio si fe’ parole: — Ben lo sappiamo: un pover uom tu se’. Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse Che rapisce de gli uomini i sospir, Come dentro al tuo petto eterne risse Ardon che tu né sai né puoi lenir. A le querce ed a noi qui puoi contare L’umana tua tristezza e il vostro duol. Vedi come pacato e azzurro è il mare, Come ridente a lui discende il sol! E come questo occaso è pien di voli, Com’è allegro de’ passeri il garrire! A notte canteranno i rusignoli: Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire; I rei fantasmi che da’ fondi neri De i cuor vostri battuti dal pensier Guizzan come da i vostri cimiteri Putride fiamme innanzi al passegger. Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno, Che de le grandi querce a l’ombra stan Ammusando i cavalli e intorno intorno Tutto è silenzio ne l’ardente pian, Ti canteremo noi cipressi i cori Che vanno eterni fra la terra e il cielo: Da quegli olmi le ninfe usciran fuori Te ventilando co ‘l lor bianco velo; E Pan l’eterno che su l’erme alture A quell’ora e ne i pian solingo va Il dissidio, o mortal, de le tue cure Ne la diva armonia sommergerà. — Ed io—Lontano, oltre Apennin, m’aspetta La Tittí — rispondea; — lasciatem’ire. È la Tittí come una passeretta, Ma non ha penne per il suo vestire. E mangia altro che bacche di cipresso; Né io sono per anche un manzoniano Che tiri quattro paghe per il lesso. Addio, cipressi! addio, dolce mio piano! — — Che vuoi che diciam dunque al cimitero Dove la nonna tua sepolta sta? — E fuggíano, e pareano un corteo nero Che brontolando in fretta in fretta va. Di cima al poggio allor, dal cimitero, Giú de’ cipressi per la verde via, Alta, solenne, vestita di nero Parvemi riveder nonna Lucia: La signora Lucia, da la cui bocca, Tra l’ondeggiar de i candidi capelli, La favella toscana, ch’è sí sciocca Nel manzonismo de gli stenterelli, Canora discendea, co ‘l mesto accento De la Versilia che nel cuor mi sta, Come da un sirventese del trecento, Piena di forza e di soavità. O nonna, o nonna! deh com’era bella Quand’ero bimbo! ditemela ancor, Ditela a quest’uom savio la novella Di lei che cerca il suo perduto amor! — Sette paia di scarpe ho consumate Di tutto ferro per te ritrovare: Sette verghe di ferro ho logorate Per appoggiarmi nel fatale andare: Sette fiasche di lacrime ho colmate, Sette lunghi anni, di lacrime amare: Tu dormi a le mie grida disperate, E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare. — Deh come bella, o nonna, e come vera È la novella ancor! Proprio cosí. E quello che cercai mattina e sera Tanti e tanti anni in vano, è forse qui, Sotto questi cipressi, ove non spero, Ove non penso di posarmi piú: Forse, nonna, è nel vostro cimitero Tra quegli altri cipressi ermo là su. Ansimando fuggía la vaporiera Mentr’io cosí piangeva entro il mio cuore; E di polledri una leggiadra schiera Annitrendo correa lieta al rumore. Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo Rosso e turchino, non si scomodò: Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo E a brucar serio e lento seguitò.
(Voce dai palazzi) E tu se d’echeggianti Valli o borea, dal grembo, o errando in selva Di pin canora, o stretto in chiostri orrendi, Voce d`umani pianti E sibilo di tibie e de la belva Ferita il rugghio in mille suoni rendi, Borea mi piaci. E te, solingo verno, Là su quell’alpe volentieri io scerno. Una caligin bianca Empie l’aer dorrnente, e si confonde Co ‘l pìan nevato a l’orizzonte estremo. Tenue rosseggia e stanca Del sol la ruota. e tra i vapor s’asconde, Com’ occhio uman di sue palpèbre scemo. E non augel, non aura in tra le piante, Non canto di fanciulla o viandante; Ma il cigolar de’ rami Sotto il peso ineguale affaticati E del gel che si fende il suono arguto. Canti Arcadia le richiami Zefiro e sua dolce famiglia a i prati Me questo di natura altiero e muto Orror più giova. Deh risveglia, Eurilla, Nel sopito carbon lieta favilla; Ed in me la serena Faccia converti e ‘l lampeggiar del riso Che primavera ove si volga adduce. A la sonante scena Poi ne attendono i palchi, ove dal viso De le accolte bellezze ardore e luce E da le chiome e da gl’inserti fiori Spira l’april che rinnovella odori. (Voce dai tuguri ) Oh se co ‘l vivo sangue Del mio cor ristorare io vi potessi, Gelide membra del figliuolo mie! Ma inerte il cor mi langue, E irrigiditi cadono gli amplessi, E sordo l’uomo ed è tropp’alto Iddio. O poverello mio, la lacrimosa Gota a la gota di tua madre posa. Non de la madre al seno Il tuo fratel posò: lenta, su ‘l varco Presse gli estremi aliti suoi la neve. Da l’opra dura, pieno Il dì, seguiva sotto iniquo carco I crudeli signor co ‘l passo breve; E co’ l’uom congiurava a fargli guerra L’aere implacato e la difficil terra. Il nevischio battea Per i laceri panni il faticoso; E cadde, e sanguinando in van risorse. La fame ahi gli emungea L’ultime forze, e al fin su ‘l doloroso Passo lo vinse; e pia la morte accorse: Poi cadavero informe e dissepolto Lo ritornar sotto il materno volto. Ahimè, con miglior legge Ripara a schermo da la gelid’aura Aquila in rupe e belva antica in lustre, Ed un covil protegge Tepido i sonni ed il vigor restaura A i can satolli entro il palagio illustre Qui presso, dove de l’amor più forte, Figlio de l’uom, te mena il gelo a morte. (Voce dalle sale) Mescete, or via mescete La vendemmia che il Ren vecchia conserva Di sue cento castella incoronato. Gorgogli con le liete Spume a lo sguardo e giù nel sen ci ferva Quel che il sol ne’ tuoi colli ha maturato Cui ben Giovanna a l’Anglo un dì contese, di vini e d’eroi Francia cortese. Poi ne rapisca in giro La turbinosa danza. Oh di pompose E bionde e nere chiome ondeggiamenti, Oh infocato respiro Che al tuo si mesce, oh disvelate rose, Oh accorti a fulminare occhi fuggenti; Mentre per mille suoni a tempra insieme L’acuta voluttà sospira e geme! Dolce sfiorar co ‘l labro Le accese guance, e stringer mano a mano E del seno su ‘l sen le vive nevi, E di sua sorte fabro Ne l’orecchio deporre il caro arcano De le sorrise parolette brevi, E meditar cingendo il fianco a lei De l’espugnata forma indi i trofei. Che se di nostre feste Scorra su l’util plebe il beneficio E civil carità prenda augumento; Mercé nostra, il celeste, Che bene e mal partì, saldo giudicio Ha di bella pietade alleggiamento. Noi, del nostro gioir, beata prole, Rallegriam l’universo a par del sole. (Voce dalle soffitte) Mancava il pan, mancava L’opra sottile a reggere la vita; E al freddo focolar sedea tremando, E muta mi guardava, Pallida mi guardava e sbigottita, La madre: e un lungo giorno iva passando Che perseguiami quel silenzio e ‘l guardo, Quand’io lassa discesi a passo tardo. Piovea per la brumale Nebbia lividi raggi alta la luna In su ‘l trivio lfangoso, e dispariva Dietro le nubi: tale Di giovinezza il lume in su la bruna Mia vita mesto fra i dolor fuggiva. E la man tesi: e vidimi in conspetto Osceni ghigni; e in cor mi scese un detto Immane. Ahi, ma più immane Me, o superbi, premea la lunga fame E il guardo e il viso de la madre antica. Tornai: recai del pane: Ma tacean del digiuno in me le brame, Ma sollevare i gravi occhi a fatica Sostenni; o madre, e nel tuo sen la fronte Ascosi e del segreto animo l’onte. Addio, d’un santo amore Fantasie lacrimate, e voi compagne Di questa infelicissima fanciulla! A voi rida il candore Del vel che la pia madre adorna e piagne, E ‘l pensier ch’erra la studio d’una culla. Io derelitta io scompagnata seguo Pur la traccia de l’ombre e mi dileguo. (Voce di sotterra) Taci, o fanciulla mesta; Taci, o dolente madre, e l’affamato Pargol raccheta ne la notte bruna. Fiammeggia, ecco, la festa Da’ vetri del palagio, ove il beato De la libera patria ordin s’aduna, E magistrati e militi tra’ suoni E dotti ed usurier mesce e baroni. De’ tuoi begli anni il fiore, O fanciulla, intristì, chiedendo in vano L’aer e l’amor ch’ogni animal desia; Ma ride in quel bagliore Di sete e d’òr, che con la bianca mano La marchesa raccoglie e va giulìa In danza. Or pianga e aspetti pur, che importa?, La prostituzione a la tua porta. Quel che ne la pupilla Del figliuol tuo gelò supremo pianto Che tu non rasciugasti, o madre trista, Gemma s’è fatto e brilla Tra ‘l nero crin de la banchiera. E intanto Il leggiadro e soave economista A lei che ride con la rosea bocca Sentenze e baci dissertando scocca. Gioite, trionfate, O felici, o potenti, o larve! E quando Il sol nuovo la plebe a l’opre caccia, Uscite e dispiegate, Pur la mal digerita orgia ruttando Le vostre pompe a’ suoi digiuni in faccia; E non sognate il dì ch’a l’auree porte Batta la fame in compagnia di morte.
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