Qual da gli aridi scogli erma su ‘l mare Genova sta, marmoreo gigante, Tal, surto in bassi dí, su ‘l fluttuante Secolo, ei grande, austero, immoto appare. Da quelli scogli, onde Colombo infante Nuovi pe ‘l mar vedea mondi spuntare, Egli vide nel ciel crepuscolare Co ‘l cuor di Gracco ed il pensier di Dante La terza Italia; e con le luci fise A lei trasse per mezzo un cimitero, E un popol morto dietro a lui si mise. Esule antico, al ciel mite e severo Leva ora il volto che giammai non rise, —Tu sol—pensando—o ideal, sei vero.
Co ‘l raggio de l’april nuovo che inonda Roseo la stanza tu sorridi ancora Improvvisa al mio cuore, o Maria bionda; E il cuor che t’obliò, dopo tant’ora Di tumulti oziosi in te riposa, O amor mio primo, o d’amor dolce aurora. Ove sei ? senza nozze e sospirosa Non passasti già tu: certo il natio Borgo ti accoglie lieta madre e sposa; Ché il fianco baldanzoso ed il restio Seno a i freni del vel promettean troppa Gioia d’amplessi al marital desio. Forti figli pendean da la tua poppa Certo, ed or baldi un tuo sguardo cercando Al mal domo caval saltano in groppa. Com’eri bella, o giovinetta, quando Tra l’ondeggiar de’ lunghi solchi uscivi Un tuo serto di fiori in man recando, Alta e ridente, e sotto i cigli vivi Di selvatico fuoco lampeggiante Grande e profondo l’occhio azzurro aprivi! Come ‘l ciano seren tra ‘l biondeggiante Òr de le spiche, tra la chioma flava Fioria quell’occhio azzurro; e a te d’avante La grande estate, e intorno, fiammeggiava; Sparso tra’ verdi rami il sol ridea Del melogran, che rosso scintillava. Al tuo passar, siccome a la sua dea, Il bel pavon l’occhiuta coda apria Guardando, e un rauco grido a te mettea. Oh come fredda indi la vita mia, Come oscura e incresciosa è trapassata! Meglio era sposar te, bionda Maria! Meglio ir tracciando per la sconsolata Boscaglia al piano il bufolo disperso, Che salta fra la macchia e sosta e guata, Che sudar dietro al piccioletto verso! Meglio oprando obliar, senza indagarlo, Questo enorme mister de l’universo! Or freddo, assiduo, del pensiero il tarlo Mi trafora il cervello, ond’io dolente Misere cose scrivo e tristi parlo. Guasti i muscoli e il cuor da la rea mente, Corrose l’ossa dal malor civile, Mi divincolo in van rabbiosamente. Oh lunghe al vento sussurranti file De’ pioppi! oh a le bell’ombre in su ‘l sacrato Ne i dí solenni rustico sedile, Onde bruno si mira il piano arato E verdi quindi i colli e quindi il mare Sparso di vele, e il campo santo è a lato! Oh dolce tra gli eguali il novellare Su ‘l quieto meriggio, e a le rigenti Sere accogliersi intorno al focolare! Oh miglior gloria, a i figliuoletti intenti Narrar le forti prove e le sudate Cacce ed i perigliosi avvolgimenti Ed a dito segnar le profondate Oblique piaghe nel cignal supino, Che proseguir con frottole rimate I vigliacchi d’Italia e Trissottino.
T’amo, o pio bove; e mite un sentimento Di vigore e di pace al cor m’infondi, O che solenne come un monumento Tu guardi i campi liberi e fecondi, 0 che al giogo inchinandoti contento L’agil opra de l’uom grave secondi: Ei t’esorta e ti punge, e tu co ‘l lento Giro de’ pazienti occhi rispondi. Da la larga narice umida e nera Fuma il tuo spirto, e come un inno lieto Il mugghio nel sereno aer si perde; E del grave occhio glauco entro l’austera Dolcezza si rispecchia ampio e quieto Il divino del pian silenzio verde.
Tu parli; e, de la voce a la molle aura lenta cedendo, si abbandona l’anima del tuo parlar su l’onde carezzevoli, e a strane plaghe naviga. Naviga in un tepor di sole occiduo ridente a le cerulee solitudini: tra cielo e mar candidi augelli volano, isole verdi passano, e i templi su le cime ardui lampeggiano di candor pario ne l’occaso roseo, ed i cipressi de la riva fremono, e i mirti densi odorano. Erra lungi l’odor su le salse aure e si mesce al cantar lento de’ nauti, mentre una nave in vista al porto ammàina le rosse vele placide. Veggo fanciulle scender da l’acropoli in ordin lungo; ed han bei pepli candidi, serti hanno al capo, in man rami di lauro, tendon le braccia e cantano. Piantata l’asta in su l’arena patria, a terra salta un uom ne l’armi splendido: è forse Alceo da le battaglie reduce a le vergini lesbie?
O tu che dormi là su la fiorita collina tosca, e ti sta il padre a canto; non hai tra l’erbe del sepolcro udita pur ora una gentil voce di pianto? È il fanciulletto mio, che a la romita tua porta batte: ei che nel grande e santo nome te rinnovava, anch’ei la vita fugge, o fratel, che a te fu amara tanto. Ahi no! giocava per le pinte aiole, e arriso pur di vision leggiadre l’ombra l’avvolse, ed a le fredde e sole vostre rive lo spinse. Oh, giù ne l’adre sedi accoglilo tu, chè al dolce sole ei volge il capo ed a chiamar la madre.
A te, de l’essere Principio immenso, Materia e spirito, Ragione e senso Mentre ne’ calici Il vin scintilla Sì come l’anima Ne la pupilla; Mentre sorridono La terra e il sole E si ricambiano D’amor parole, E corre un fremito D’imene arcano Da’ monti e palpita Fecondo il piano; A te disfrenasi Il verso ardito, Te invoco, o Satana, Re del convito. Via l’aspersorio, Prete, e il tuo metro! No, prete, Satana Non torna in dietro! Vedi: la ruggine Rode a Michele Il brando mistico, Ed il fedele Spennato arcangelo Cade nel vano. Ghiacciato è il fulmine A Geova in mano. Meteore pallide, Pianeti spenti, Piovono gli angeli Da i firmamenti. Ne la materia Che mai non dorme, Re dei i fenomeni, Re de le forme, Sol vive Satana. Ei tien l’impero Nel lampo tremulo D’un occhio nero, O ver che languido Sfugga e resista, Od acre ed umido Pròvochi, insista. Brilla de’ grappoli Nel lieto sangue, Per cui la rapida Gioia non langue, Che la fuggevole Vita ristora, Che il dolor proroga, Che amor ne incora. Tu spiri, o Satana, Nel verso mio, Se dal sen rompemi Sfidando il dio De’ rei pontefici, De’ re cruenti; E come fulmine Scuoti le menti. A te, Agramainio, Adone, Astarte, E marmi vissero E tele e carte, Quando le ioniche Aure serene Beò la Venere Anadiomene. A te del Libano Fremean le piante,, De l’alma Cipride Risorto amante: A te ferveano Le danze e i cori, A te i virginei Candidi amori, Tra le odorifere Palme d’Idume, Dove biancheggiano Le ciprie spume. Che val se barbaro Il nazareno Furor de l’agapi Dal rito osceno Con sacra fiaccola I templi t’arse E i segni argolici A terra sparse? Te accolse profugo Tra gli dèi lari La plebe memore Ne i casolari. Quindi un femineo Sen palpitante Empiendo, fervido Nume ed amante, La strega pallida D’eterna cura Volgi a soccorrere L’egra natura. Tu a l’occhio immobile De l’alchimista, Tu de l’indocile Mago a la vista, Del chiostro torpido Oltre i cancelli, Riveli i fulgidi Cieli novelli. A la Tebaide Te ne le cose Fuggendo, il monaco Triste s’ascose. O dal tuo tramite Alma divisa, Benigno è Satana; Ecco Eloisa. In van ti maceri Ne l’aspro sacco: Il verso ei mormora Di Maro e Flacco Tra la davidica Nenia ed il pianto; E, forme delfiche, A te da canto, Rosee ne l’orrida Compagnia nera, Mena Licoride, Mena Glicera. Ma d’altre imagini D’età più bella Talor si popola L’insonne cella. Ei, da le pagine Di Livio, ardenti Tribuni, consoli, Turbe frementi Sveglia; e fantastico D’italo orgoglio Te spinge, o monaco, Su ‘l Campidoglio. E voi, che il rabido Rogo non strusse, Voci fatidiche, Wicleff ed Husse, A l’aura il vigile Grido mandate: S’innova il secolo, Piena è l’etate. E già già tremano Mitre e corone: Dal chiostro brontola La ribellione, E pugna e prèdica Sotto la stola Di fra’ Girolamo Savonarola.. Gittò la tonaca Martin Lutero; Gitta i tuoi vincoli, Uman pensiero, E splendi e folgora Di fiamme cinto; Materia, inalzati; Satana ha vinto. Un bello e orribile Mostro si sferra, Corre gli oceani, Corre la terra: Corusco e fumido Come i vulcani, I monti supera, Divora i piani; Sorvola i baratri; Poi si nasconde Per antri incogniti, Per vie profonde; Ed esce; e indomito Di lido in lido Come di turbine Manda il suo grido, Come di turbine L’alito spande: Ei passa, o popoli, Satana il grande. Passa benefico Di loco in loco Su l’infrenabile Carro del foco. Salute, o Satana, O ribellione, O forza vindice De la ragione! Sacri a te salgano Gl’incensi e i voti! Hai vinto il Geova De i sacerdoti.
De la prona stagion ne i dí più tardi Che le rose sfioriro e i laureti, Quando cavalleria cinge i codardi E al valor civiltà mette divieti, A te, Scandian, faro gentil che ardi Ne l’immensa al pensiero epica Teti, O rocca de’ Fogliani e de’ Boiardi, Terra di sapïenti e di poeti, Io vengo: a tergo mi lasciai la grama Che il mondo dice poesia, lasciai I deliri a cui par che dietro agogni L’età malata. Io sento che mi chiama De’ secoli la voce, e risognai La verità de i grandi antichi sogni.
Batto a la chiusa imposta con un ramicello di fiori glauchi ed azzurri, come i tuoi occhi, o Annie Vedi: il sole co ‘I riso d’un tremulo raggio ha baciato la nube, e ha detto – Nuvola bianca, t’apri. Senti: il vento de l’alpe con fresco susurro saluta la vela, e dice – Candida vela, vai. Mira: I’augel discende da l’umido cielo su ‘l pèsco in fiore, e trilla Vermiglia pianta, odora. Scende da’ miei pensieri l’eterna dea poesia su ‘I cuore, e grida – O vecchio cuore, batti. E docile il cuore ne’ tuoi grandi occhi di fata s’affisa, e chiama – Dolce fanciulla, canta.
Pur da queste serene erme pendici D’altra vita al rumor ritornerò; Ma nel memore petto, o nuovi amici, Un desio dolce e mesto io porterò. Tua verde valle ed il bel colle aprico Sempre, o Bulcian, mi pungerà d’amor; Bulciano, albergo di baroni antico, Or di libere menti e d’alti cor. E tu che al cielo, Cerbaiol, riguardi Discendendo da i balzi d’Apennin, Come gigante che svegliato tardi S’affretta in caccia e interroga il mattin, Tu ancor m’arridi. E, quando a i freschi venti Di su l’aride carte anelerà L’anima stanca, a voi, poggi fiorenti, Balze austere e felici, a voi verrà. Fiume famoso il breve piano inonda; Ama la vite i colli; e, a rimirar Dolce, fra verdi querce ecco la bionda Spiga in alto a l’alpestre aura ondeggiar. De i vecchi prepotenti in su gli spaldi Pasce la vacca e mira lenta al pian; E de le torri, ostello di ribaldi, Crebbe l’utile casa al pio villan. Dove il bronzo de’ frati in su la sera Solo rompeva, od accrescea, l’orror, Croscia il mulino, suona la gualchiera E la canzone del vendemmiator. Coraggio, amici. Se di vive fonti Corse, tocco dal santo, il balzo alpin, A voi saggi ed industri i patrii monti Iscaturiscan di fumoso vin: Del vin ch’edúca il forte suolo amico Di ferro e zolfo con natia virtú: Col quale io libo al padre Tebro antico, Al Tebro tolto al fin di servitù. Fiume d’Italia, a le tue sacre rive Peregrin mossi con devoto amor Il tuo nume adorando, e de le dive Memorie l’ombra mi tremava in cor. E pensai quanto i tuoi clivi Tarconte Coronato pontefice salì, E, fermo l’occhio nero a l’orizzonte, Di leggi e d’armi il popol suo partì; E quando la fatal prora d’Enea Per tanto mar la foce tua cercò, E l’aureo scudo de la madre dea In su l’attonit’onde al sol raggiò; E quando Furio e l’arator d’Arpino, Imperador plebeo, tornava a te, E coprivan l’altar capitolino Spoglie di galli e di tedeschi re. Fiume d’Italia, e tu l’origin traggi Da questa Etruria ond’è ogni nostro onor; Ma, dove nasci tra gli ombrosi faggi, L’agnel ti salta e túrbati il pastor. Meglio cosí, che tra marmoree sponde Patir l’oltraggio de’ chercuti re, E con l’orgoglio de le tumid’onde L’orme lambire d’un crociato piè. Volgon, fiume d’Italia, omai tropp’anni Che la vergogna dura: or via, non piú. Ecco, un grido io ti do—Morte a’ tiranni —; Portalo, o fiume, a Ponte Milvio, tu. Portal con suono ch’ogni suon confonda, Portal con le procelle d’Apennin, Portalo, o fiume; e un’eco ti risponda Dal gran monte plebeo, da l’Aventin. Tende l’orecchio Italia e il cenno aspetta: Allor chi fia che la vorrà infrenar ? Cento schiere di prodi a la vendetta Da le tue valli verran teco al mar. Risplendi, o fausto giorno. Ahi, se piú tardi, Romito e taumaturgo esser vorrò: Da la faccia de’ rei figli codardi Ne le tombe de’ padri io fuggirò. Con l’arti vo’ che cielo o inferno insegna Da questi monti il foco isprigionar, E fiamme in vece d’acqua a Roma indegna, Al Campidoglio vile io vo’ mandar.
Ne l’aula immensa di Lussor, su ‘l capo roggio di Ramse il mistico serpente sibilò ritto e ‘l vulture a sinistra volò stridendo, e da l’immenso serapèo di Memfi, cui stanno a guardia sotto il sol candente seicento sfingi nel granito argute, Api muggío, quando da i verdi immobili papiri di Mareoti al livido deserto sonò, tacendo l’aure intorno, questo greco peana. – Ecco, venimmo a salutarti, Egitto, noi figli d’Elle, con le cetre e l’aste. Tebe, dischiudi le tue cento porte ad Alessandro. Noi radduciamo a Giove Ammone un figlio ch’ei riconosca; questo caro alunno de la Tessaglia, questa bella e fiera stirpe d’Achille. Come odoroso läureto ondeggia a lui la chioma: la sua rosea guancia par Tempe in fiore: ha ne’ grand’occhi il sole ch’ a Olimpia ride: ha de l’Egeo la radïante in viso pace diffusa; se non quando, bianche nuvole, i sogni passanvi di gloria e poesia. Ei de la Grecia a la vendetta balza leon da l’aspra tessala falange, sgomina carri ed elefanti, abbatte satrapi e regi. Salve, Alessandro, in pace e in guerra iddio! A te la cetra fra le eburnee dita, a te d’argento il fulgid’arco in pugno, presente Apollo! A te i colloqui di Stagira, i baci a te co’ serti de le ionie donne, a te la coppa di Lieo spumante, a te l’Olimpo. Lisippo in bronzo ed in colori Apelle ti tragga eterno: ti sollevi Atene, chete de’ torvi demagoghi l’ire, al Partenone. Noi ti seguiamo: il Nilo in vano occulta i dogmi e il capo a la possanza nostra: noi farem pace qui tra i numi e al mondo luce comune. E se ti piaccia aggiogar tigri e linci, Bacco novello, noi verrem cantando, te duce, in riva al sacro Gange i sacri canti d’Omero. – Tale il peana de gli achei sonava. E il giovin duce, liberato il biondo capo da l’elmo, in fronte a la falange guardava il mare. Guardava il mare e l’isola di Faro innanzi, a torno il libico deserto interminato: dal sudato petto l’aurea corazza sciolse, e gittolla splendida nel piano: – Come la mia macedone corazza stia nel deserto e a’ barbari ed a gli anni regga Alessandria. – Disse; ed i solchi a le nascenti mura ei disegnava per ottanta stadi, bianco spargendo su le flave arene fior di farina. Tale il nipote del Pelíde estrusse la sua cittade; e Faro, inclito nome di luce al mondo, illuminò le vie d’Africa e d’Asia. E non il flutto del deserto urtante e non la fuga de i barbarici anni valse a domare quella balda figlia del greco eroe. Alacre, industre, a la sua terza vita ella sorgea, sollecitando i fati, qual la vedesti, o pellegrin poeta, ammiratore, quando fuggendo la incombente notte di tirannia, pien d’inni il caldo ingegno, ivi chiedendo libertade e luce a l’orïente, e su le tombe di turbanti insculte star la colonna di Pompeo vedesti come la forza del pensier latino su ‘l torbid’evo. Deh, le speranze de l’Egitto e i vanti nel tuo volume vivano, o poeta! Oggi Tifone l’ire del deserto agita e spira. Sepolto Osiri, il latratore Anubi morde a i calcagni la fuggente Europa, e avanti chiama i bestïali numi a le vendette. Ahi vecchia Europa, che su ‘l mondo spargi l’irrequïeta debolezza tua, come la triste fisa a l’orïente sfinge sorride!
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