Giorgio Caproni
Tutti riceviamo un dono.
Poi, non ricordiamo più
né da chi, né che sia.
Soltanto ne conserviamo
– pungente e senza condono –
la spina della nostalgia.
Tutti riceviamo un dono.
Poi, non ricordiamo più
né da chi, né che sia.
Soltanto ne conserviamo
– pungente e senza condono –
la spina della nostalgia.
Buttate pure via
ogni opera in versi o in prosa.
Nessuno è mai riuscito a dire
cos’è, nella sua essenza, una rosa.
Lattiginosa d’alba
nasce sulle colline,
balbettanti parole ancora
infantili, la prima luce.
La terra, con la sua faccia
madida di sudore,
apre assonnati occhi d’acqua
alla notte che sbianca.
(Gli uccelli sono sempre i primi
pensieri del mondo).
Ricordo una chiesa antica,
romita,
nell’ora in cui l’aria s’arancia
e si scheggia ogni voce
sotto l’arcata del cielo.
Eri stanca,
e ci sedemmo sopra un gradino
come due mendicanti.
Invece il sangue ferveva
di meraviglia, a vedere
ogni uccello mutarsi in stella
nel cielo.
Ho provato a parlare.
Forse, ignoro la lingua.
Tutte frasi sbagliate.
Le risposte: sassate
Sono donne che sanno
così bene il mare
che all’arietta che fanno
a te accanto al passare
senti sulla tua pelle
fresco aprirsi di vele
e alle labbra d’arselle
deliziose querele.
Non uccidete il mare,
la libellula, il vento.
Non soffocate il lamento
(il canto!) del lamantino.
Il galagone, il pino:
anche di questo è fatto
l’uomo. E chi per profitto vile
fulmina un pesce, un fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: Come
potrebbe tornare a essere bella,
scomparso l’uomo, la terra»
Nell’aria di settembre (aria
d’innocenza sul chiareggiato
colle) sopra le zolle
ruvide mi sono care
le case a colori grezzi
del tuo paese natale.
Scherzano battendo l’ale
candide sui tetti a fiore
giunti, le colombelle
nuove.
Mentre commuove
dei voli l’aria il giro
tondo, nel cielo ai tocchi
festevoli delle campane
è il lindore dei tuoi virginei
occhi.
Amore mio, nei vapori d’un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rinfresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?… Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dormi, ora che in vece la tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte
qui, col tuo passo, già attendo la morte.
Atque in perpetuum, frater…
Quanto inverno, quanta
neve ho attraversato, Piero,
per venirti a trovare.
Cosa mi ha accolto?
Il gelo
della tua morte, e tutta
tutta quella neve bianca
di febbraio – il nero
della tua fossa.
Ho anch’io
detto le mie preghiere
di rito.
Ma solo,
Piero, per dirti addio
e addio per sempre, io
che in te avevo il solo e vero
amico, fratello mio.