Non uccidete il mare, la libellula, il vento. Non soffocate il lamento (il canto!) del lamantino. Il galagone, il pino: anche di questo è fatto l’uomo. E chi per profitto vile fulmina un pesce, un fiume, non fatelo cavaliere del lavoro. L’amore finisce dove finisce l’erba e l’acqua muore. Dove sparendo la foresta e l’aria verde, chi resta sospira nel sempre più vasto paese guasto: Come potrebbe tornare a essere bella, scomparso l’uomo, la terra»
Sono donne che sanno così bene il mare che all’arietta che fanno a te accanto al passare senti sulla tua pelle fresco aprirsi di vele e alle labbra d’arselle deliziose querele.
Chi sia stato il primo, non è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo. Poi, uno dopo l’altro, tutti han preso la stessa via. Ora non c’è più nessuno. La mia casa è la sola abitata. Son vecchio Che cosa mi trattengo a fare, quassù, dove tra breve forse nemmeno ci sarò più io a farmi compagnia? Meglio – lo so – è ch’io bada prima che me ne vada anch’io. Eppure, non mi risolvo. Resto. Mi lega l’erba. Il bosco. Il fiume. Anche se il fiume è appena un rumore ed un fresco dietro le foglie. La sera siedo su questo sasso, e aspetto. Aspetto non so che cosa, ma aspetto. Il sonno. La morte direi, se anch’essa da un pezzo – già non se ne fosse andata da questi luoghi. Aspetto e ascolto. (L’acqua, da quanti milioni d’anni, l’acqua, ha questo suo stesso suono sulle sue pietre?) Mi sento perso nel tempo. Fuori del tempo, forse. Ma sono con me stesso. Non voglio lasciare me stesso uscire da me stesso come, dal sotterraneo il grillotalpa in cerca d’altro buio. Il trifoglio della città è troppo fitto. Io son già cieco. Ma qui vedo. Parlo. Qui dialogo. Io qui mi rispondo e ho il mio interlocutore. Non voglio murarlo nel silenzio sordo d’un frastuono senz’ombra d’anima. Di parole senza più anima.
Al bel tempo di maggio le serate si fanno lunghe; e all’odore del fieno che la strada, dal fondo, scalda in pieno lume di luna, le allegre cantate dall’osterie lontane, e le risate dei giovani in amore, ad un sereno spazio aprono porte e petto. Ameno mese di maggio! E come alle folate calde dall’erba risollevi i prati ilari di chiarore, alle briose tue arie, sopra i volti illuminati a nuovo, una speranza di grandiose notti più umane scalda i delicati occhi, ed il sangue, alle giovani spose.
Come scendeva fina e giovane le scale Annina! Mordendosi la catenina d’oro, usciva via lasciando nel buio una scia di cipria, che non finiva. L’ora era di mattina presto, ancora albina. Ma come s’illuminava la strada dove lei passava! Tutto Cors’Amedeo, sentendola, si destava. Ne conosceva il neo sul labbro, e sottile la nuca e l’andatura ilare – la cintura stretta, che acre e gentile (Annina si voltava) all’opera stimolava. Andava in alba e in trina pari a un’operaia regina. Andava col volto franco (ma cauto, e vergine, il fianco) e tutta di lei risuonava al suo tacchettio la contrada.
Il sole della mattina, in me, che acuta spina. Al carro tutto di vetro perché anch’io andavo dietro? Portavano via Annina (nel sole) quella mattina. Erano quattro cavalli (neri) senza sonagli. Annina con me a Palermo di notte era morta, e d’inverno. Fuori c’era il temporale. Poi cominciò ad albeggiare. Dalla caserma vicina allora, anche quella mattina, perché si mise a suonare la sveglia militare? Era la prima mattina del suo non potersi destare.
Quanti se ne sono andati… Quanti. Che cosa resta. Nemmeno il soffio. Nemmeno il graffio di rancore o il morso della presenza. Tutti se ne sono andati senza lasciare traccia. Come non lascia traccia il vento sul marmo dove passa. Come non lascia orma l’ombra sul marciapiede. Tutti scomparsi in un polverio confusi d’occhi. Un brusio di voci afone, quasi di foglie controfiato dietro i vetri. Foglie che solo il cuore vede e cui la mente non crede.
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