Alzate l’architrave carpentieri perché rubi dal cielo le comete per farmene una veste scintillante o una stola di polvere d’argento io donna ambigua dal sorriso incerto che nasconde nell’intimo i pensieri. Gioco coi verbi, dico e poi disdico m’arresto per fuggir subito dopo instabile nel riso e nel lamento. Alzate l’architrave carpentieri, lucciola sono di distanze estreme falena che si nutre all’altrui lume girando intorno, orbita fallace d’un desiderio solo. E non avrò che un cero dallo stoppino fragile, uno spago una corda restia a srotolarsi per farmi donna libera di dire gli ampi spazi che l’anima promana, mondi diversi, inusitati suoni… Alzate l’architrave carpentieri io non sto dentro ad una sola stanza.
Amarti è forse gioco di follia ma ogni mia fibra vibra al tuo contatto se solo tu mi sfiori con la mano e la tua voce scende liquefatta come metallo ardente nelle vene quando mi parli od anche mi saluti. Non trovarmi l’antidoto o il vaccino: voglio morir di questa malattia. da SCAMPOLI DI VITA
Estate bionda, alla tua fatica io non mi arresi mai completamente. Legata a una stagione senza età mai consumata con i bocci in fiore non aperti né all’austro né al grecale in selve mi inoltrai col desiderio di un papavero rosso alla mia sponda. E nell’intrigo oscuro crebbi felci, umide felci spose già ai cipressi dove il silenzio arresta la parola. Così non ebbi spighe od uve acerbe non ebbi la cicala a canticchiare le note cupe della tua passione: c’erano bocci chiusi sui miei rami, c’era l’attesa di un fiore ormai reciso dalla falce. L’arco del giorno si conclude, a turno vanno le gazze a scuotere l’ulivo: qualche frutto ancor cade ma è marcito. Non c’è più nulla adesso da godere le nubi si accartocciano a ringhiera a coprire ogni stella in firmamento ma io attendo sempre il fiore rosso che mi schiuda le labbra nella sera.
Mi son fatta per te strega di giugno per raccogliere l’aglio e la lavanda nella notte più corta dell’estate. Quanti riti per fari innamorare quanti lacci amorosi ho preparato ma tu, sveglio, ti fermi ad ammirare lassù in alto i fuochi d’artificio e non vedi me lucciola di campo che rigira ormai spenta attorno a te.
Perdonami, mio caro, se per gioco in agrodolce mi comporto spesso mescolando lo zucchero al limone. Però protesto che tu metta invece l’arsenico nel latte a colazione. È morto il gatto, povera bestiola, con miagolii e ruggiti da leone. da LA RINA, CLASSE 1910
Monsù Ferrè adesso un poco osa mette le mani alla Cesira ai fianchi ma subito le toglie: l’Ingegnere che cosa potrà dire l’Ingegnere? A lui egli affidato ha la famiglia e la Cesira è una di famiglia. Come sarebbe bello farla sua in mezzo al grano oppure nelle stoppie o invece tra i filari al grignolino la bocca dolce col sapor dell’uva le chiome adesso strette nella treccia sciolte alle spalle, gli occhi rovesciati e lui succhia i capezzoli, fa spazio con la mano nervosa tra le cosce… È mezzogiorno i bimbi son tornati tra poco sarà pronto il desinare ma la Rina non c’è, dov’è la Rina? E la Cesira già si sente in colpa per non aver a dovere sorvegliato presa anche lei da desideri impuri. Ben altro per la testa, turbamenti affondati da tempo nel ricordo. Poi la Rina ritorna, col cestello colmo di funghi, gli occhi scintillanti. La Cesira non fiata, non la sgrida: lingua tagliente e lunga ha la monella! Ora tutti s’apprestano a mangiare. Monsù Ferrè con aria indifferente allunga il piede e poi lo struscia piano contro il piede di lei sotto la tavola. Avvampa la Cesira come brace… da CANTI D’AMORE PER SAN VALENTINO
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