Lo sguardo bovino dei due carabinieri Al caldo in macchina A dieci metri dall’attraversamento pedonale Dove inginocchiata Con un cartone logoro e la scritta Di figli e di pietà Smunta di orrori stava lei Tra i piedi anche dei preti percorrenti Il week end della Immacolata in tutta fretta.
I La magia di questa Terra che si sveglia Respirando nuova Aria tra le bare. Al cimitero di Fabriano l’alba E’ una cosa seria. II Quando alle confraternite del Santo Sacramento E del Suffragio Seguiva il gonfalone del Comune E poi le Arti, Lanaioli calzettai tessitori cartai Con le insegne delle famiglie più importanti, Nella piazza dell’amena cittadina Coi colli intorno verdeggianti Venivano messi alla berlina E poi alla gogna Quelli come me colti in flagrante. III Mi colpì nel 1982 una frase di mio cognato fabrianese A mia sorella, madre di Stefano – Poi dedicatario di Theios – Che all’epoca soffriva di frequenti tonsilliti: “Mai, a mio figlio mai, una supposta in culo”. IV Nello Spedale di Santa Maria del Buon Gesù Ha oggi sede la Civica Pinacoteca Dove un arazzo campeggia coi seguaci Degli apostoli che gettano I libri eretici nel fuoco. V Ai libri come seguono Gli eretici in persona E a questi i non-conformi Uomini e donne, in primis Quelli delle supposte, poi le streghe.
Quando era lontano dalle sere Gli sembrava tutto naturale, Dimenticare il travestimento Le gomme a posto il senso Della città di essere solo. Ma quando era già buio, e poi più buio – E c’è soltanto il fare, Dire stasera non mi sento O per stasera lascio stare, Basta per un’ora, ma poi l’altra. Allora tornava senza sole Il desiderio, vuoto il bisogno di salire Sul palco aperto al cuore della strada. Da Scuola di Atene, 1991
Il sentiero scendeva sulla fronte di Armio, Lago d’inverno stropicciato solo. Se ne andava con profondi squarci Nel ritratto d’acqua dell’acqua che indossava E il suo cavallo sollevava onde di polvere Nello sguardo semplice del cielo. I pini salivano nel buio – ripeteva a nascondersi tra stelle decenti coi soli sorrisi – E adesso erano proprio tutti uguali. Da Quaranta a quindici, 1987
Oggi che la Germania Non è più il mostro accucciato Che ho conosciuto nell’infanzia, Oggi che è tornata arrogante E la sua Meticolosità nell’efficienza Mi appare per quel che è – Nevrosi da obbedienza – Io le ripeto: quieta, zitta, a cuccia Già hai dato il meglio, non strafare. Franco Buffoni (Gallarate, 1948), da O Germania (Interlinea, 2015)
Porta Orientale Porta Ticinese Porta Genova Porta Romana Porta Vercellina Trionfano sopra Cristo in croce Nell’allegoria della battaglia di Legnano Conservata al museo del duomo di Vercelli. E le alabarde frecce ed aste oblique Paiono dipartite da corna intrecciate Di buoi rossocrociati. Dall’altare un barbuto Benedice solo eroi e qualche utopia Almeno per quei popoli e ceti sociali Che ne hanno ancora bisogno.
Lontane su un mare piatto Abbandonate navi in disarmo Della marina vaticana. E a dominare i prodigi Che in quelle acque di palude Operava la natura, In un palazzo con loggia decorata Da sette leoni passanti, Accanto all’emblema accollato Da palme fruttate di rosso, Due papi in abito da giullare Nel dipinto staccato attendono il giudizio Senza nemmeno una striscia Di cielo che li aspetti.
«E il caffè dove lo prendiamo?» Chiede quella più debole, più anziana Stanca di camminare. Alla casa del cinema, Là dietro piazza di Siena. Non si erano accorte della mia presenza Nel giardinetto del museo Canonica, Si erano scambiate un’effusione Un abbraccio stretto, un bacio sulle labbra. Parlavano in francese, una da italiana «Mon amour» le diceva, che felicità Di nuovo insieme qui. Come mi videro si ricomposero Distanziando sulla panchina i corpi. Le scarpe da ginnastica, Le caviglie gonfie dell’anziana. Quella sera, come smollò il caldo, Passeggiai fino a Campo de’ Fiori, Pizzeria all’angolo, due al tavolo seduti di fronte, Giovani puliti timidi e raggianti Dritti sulle sedie col menù sfogliavano E si scambiavano opinioni Discretamente. Lessi una dignità in quel gesto educato Al cameriere, una felicità Di esserci Intensa, stabilita. Decisi li avrei pensati sempre Così dritti sulle sedie col menù. Da Roma, 2009
Ho pensato a te, contino Giacomo, vedendo Su una rivista patinata Le foto degli scavi in Siria a Urkish, A te e ai tuoi imperi e popoli dell’Asia Quando intuivi immensamente lunga La storia dell’umanità. Altro che i Greci il popolo giovane di Hegel O il mondo solo di quattromila anni della Bibbia Credendo di dir tanto, fino a ieri. Tu lo sapevi che sotto sette strati stava Urkish La regina coi fermagli L’intero archivio su mille tavolette Già indoeuropea nella parlata L’accusativo in emme. Capitale urrita Dai gioielli legati all’infinita pazienza Dei ricami in oro. Tu lo sapevi che poi gli Hittiti Sarebbero giunti a conquistarla, Già loro vecchi e di vecchi archivi nutriti… Sono stufo di preti e di poeti, conte Giacomo. E di miti infantilmente riadattati.
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