Avverrà in questo terso mattutino cielo di novembre dopo i morti anche la mia redenzione? la vite risanguina sul viale vena il verde del muro lo insanguina la siepe incurabile muore, vacillante volontà mi sospinge dopo mesi, una sirena dopo l’altra clamanti insistenti vocalizzi, nel fresco mattino sereno a fare versi: clemente quiete nel giardino assolato e solitario dopo il sonno e la notturna pioggia, indugio in minuzie ma non devo disperare se immagini sfocate coglie il miope sguardo: un nido caduto guscio vuoto annerito dall’acqua gocce-luci sui tralci dell’edera brillanti verdi tenere o dorate escrescenze aghi e foglie la pozza l’invaso d’acqua morta e liquami il filare dei lauri il rastrello e la forbice l’erba tagliata, una lumaca vi traccia scie d’argento, la giornata si scalda le nostre tartarughe passeggiano caute sulla terra umida il traffico scorre, una piena anche la nostra vita, passano cirri e stagioni noi restiamo abbandonati nei giorni deserti rubricati nelle vecchie istantanee di un album che a sera la mente risfoglia, l’età è mondo e passato una pozza d’acqua scura dove trote argentate crescono i ricordi nuotando e ingrassando sfuggenti l’esca e l’amo del presente della mia poesia. da LEZIONI DI RESPIRO
Più sussurro che voce erano i versi il trionfo di un eros che non conobbe mai resa appagandosi solo se gli occhi voraci si saziavano – complice la luce matura del primo pomeriggio penetrante dalle tende semichiuse nella camera guscio vuoto in cui l’amore si accuccia nei giorni estivi – del tuo corpo bruno di sole acre di sudore e di sale quando stremata «lasciami riposare» pregavi ma convinta e vinta dalle carezze che la lingua ai tuoi golfi umidi e colli prodigava ti piegavi e ti aprivi per accogliermi ardente brace languente cera…
La mia solita febbricola, una musa casalinga e privata così poco mondana ma non priva di civiltà trastulla la noia con le fragili forme di un’ansiosa felicità, e con la tenera rosa ottobrina ritorna la smania di vivere l’amore giovanile la grazia perduta di un’età passata, il tardivo pentimento la pudica speranza, illusione nevrotica di un cuore già stanco e incubo quieto d’ogni nata mattutina dilezione, ma la sorte solitudine adduce mentre calco claudicante le scene di un mondo di nuovo avviato all’autunnale sperpero di vita al desiderio di morte, malinconica attesa che è carne di futura mestizia carità che non consola, nel giorno nato uguale e diverso diversa- mente amato, l’inverno mio teatro e osservatorio quando a sera anche l’inganno mattutino si svela rivelandosi volgare avanspettacolo giostra corteo funerario, la verità rivelata e corrotta una profana ascesa ai più infimi abissi del divino amore, tempesta preparata a redimere il deserto, una mano due tese a toccarsi a tentare fortuna: cosa resta da volere e da scrivere?
Intanto che la sera pianissimo e i rumori della festa e le luci e l’angustia per un ritardo d’amore smorivano, da più lievi brezze sospinte sul campanile e le sette ……. tra stupore e meraviglia con movenze eleganti e pigrissime giunsero le nuvole.
Neve di maggio: nel silenzio ottuso dei sentimenti colse di sorpresa e intirizzì cuori e ragioni, avvolse il paese adagiato sulla bianca costa del monte e che sopra la mobile apparenza sembrava somigliare a quell’esile nudo di ragazza fiorito dal risveglio – l’uno a specchio dell’altra (che con occhi ancora pieni di sonno sorrideva) – o era miraggio quel languore sfinito e abbagliante il gelido mattino presto invaso da un dolore più acuto del silenzio e incessante, paziente, acuminato? No, non era né inganno né morgana invernale la mossa positura che la luce dell’alba ghiaccia tenera- mente baciava e faceva sua – o se lo era nel fresco silenzio della stanza era solo per il caldo affanno della notte che il ricordo riaccendeva – era il docile abbandono del bianco sopra il bianco contro il muro di luce oltre il suo fianco più reale di un rimorso pudico e appena vero se all’esultante aria del mattino potrà svanire – simile al silenzio diventato alla luce già frastuono.
Torna, Musa, coi mattini brumosi e torbidi d’autunno coi vapori dai fossi dalle forre fumiganti gli odori aspri i colori densi del parco la luce come il cuore intermittente; torna con lo scialo dei platani sui viali coi voli di passo sull’oro delle foglie; torna con la foschia – tenue sudario disteso pigramente sopra i tuoi colli, mia mortale città, sull’acqua fosca dei tuoi fiumi letali – col sole temperato di settembre che la scioglie; torna, ritorna col passo frettoloso che guida ai sottovia della metro all’aria aperta col primo nubifragio di fine estate – code e ingorghi inestricabili di traffico impazzito –, con l’ansia la pazienza ai versi necessaria col loro lineiforme stratificarsi, frecce scagliate dritte al bersaglio ———— «ora non posso, se mai fu possibile prima, esaurirmi in un fuoco di lirica passione sfolgorare in un brillio di breve e fatale intensità (sebbene è vero l’esatta misura sia di dieci dodici versi o tutt’al più un sonetto come O dolce selva solitaria perfetto di Giovanni Della Casa), ho bisogno di un verso liquido che fluisca naturale con forma e suono acconci che narri districando il groviglio dei sensi, di un senso semplicemente chiaro nemmeno verità ma ipotesi del vero che sia ricco senza effusione e scarno senza povertà: questo m’è necessario»; ———— che ne sia capace o lo creda tu torna, mia Musa, col fresco della sera col rosa della rosa ottobrina e solitaria tornata a rifiorire nell’aiuola feconda del cortile (dove si godono il calore della terra le mattine umide due gattacci, l’indolente invecchiato fulvo maschio e la femmina furba giovanilmente inquieta che mi guarda diffidando e sfidandomi); col rosa fuoco torna dell’occaso la sagoma oscura del parco le luci del Forte, le prime a vedersi, e le finestre accese su Pineta Sacchetti – avamposto borghese popolare di Primavalle proletaria – dal fondo della curva nascoste dai filari verdecupi dei pini dalle spente acacie macchiaiole lungo i bordi del fosso e della strada, immerse nell’indaco notturno che spaesa il reale– infine, Musa, vieni con l’affanno del nuovo o la quiete serena che dà la tua franca parola.
del mattutino dolo stella, maligna e sola ancora brilli quando il primo raggio invade la penombra e nella stanza alligna come la vite che nell’imo suolo alla nemica sua cugina edera viva acqua d’amore e luce di speranza contende o rade tardive rose nell’aiuola e nel giardino al sole appena tiepido aperte proclive alla passione dei sereni ultimi giorni di maggio: nel maggiore anniversario chiara la beltà ne godranno le tue assorte pupille e arse lo sguardo l’interna pena che prepara la loro vespertina pudica morte avvertirà nel raggio che le avvolge e dora, vita che si arrende all’amore e alla realtà della sua santa consumazione
Una giovane coppia dal crocchio a concilio sull’estrema punta dell’Arsenale spicca un volo radente sulla tremula baia – poi si separa: il maschio si tuffa argenteo dardo sui verdi flutti pilucca l’acqua riascende chiama la compagna; lei vira in rapido slalom tra sartie di barche dolcemente ondeggianti al riflusso della marea, gli giunge sul fianco destro l’incalza lo invita a un gioco amoroso di tuffi sul filo d’estri leggeri, in punta d’ali planando su una cala della rada; qui nel primo cerchio dell’ombra si dànno di becco – poi con pigro slancio tornano in seno alla famiglia. ———— Anche la coppia che il fuori tempo dei giorni festivi avvicina e divide ecco, spenta la sera nel paseo solitario e leggero, torna al colloquio fervido per la Calle Mayor – spinta a una notte di pura lussuria all’ansiosa lena dei sensi al colpo risolutore.
alla tua fiamma appartiene la luce del pensiero quando al risveglio spazia acuminato quando concilia o produce la consumazione del tempo i sensi sazi poi che il segno la trama o delinea come l’opera di un ragno il progetto severo del fuoco quando affina il legno intagliato e ne tempra il difetto sono file filari di parole solchi e vene nella terra arsa dell’anima che incisi si fanno ordito e trama aeree nivee scie nell’azzurro del cielo rotonde rive salate del mare forme che se le svisi perdi presto come tracce nella cenere * Traslucente al mattutino primo lucore l’aria è lo specchio in cui misuro e peso le offerte del nuovo mese: l’oro vecchio della memoria e il metallo brunito di un verso a lungo scarnito dalla punta secca della matita l’ottusa lena e la boria del mare i sassi levigati, contrappeso a un futuro diverso e disadorno, un altro anello nel cuore del pino la promessa di nuove fioriture di rinascite… illusioni elusive e vane regole invano seguite, incapace d’ironia ti sei messa su una cattiva strada mia poesia – ———— comunque vada la verità e il suo rovescio hanno un destino già scritto segnato dal ritorno a casa dove ancora il muro di verde d’anno in anno più alto e fitto impedirà l’evasione il salto eliso domestico o nostra caienna volontaria deriva o secca “ma l’amore coltiva e cura i suoi confini: il giardino la rosa canina la siepe di lauro la sua mondanità” – fiore proteso sull’infimo abisso del mondo spolpato fino all’osso e arso il verso come stella alpina sopravvive alla mia siccità. * “Berryman scrisse innamorato una centuria e più di sonetti audaci appassionati – suo modello Petrarca, un caso dubbio secondo Pound – e li tenne per vent’anni nell’incuria dei cassetti clandestini come l’amore che vi era raccontato…” anch’io (m’ero ripromesso di non scriverne più) più per caso che per amore ne ho fatti alcuni (doppi come ha due facce ogni umana realtà: cuore e ragione corpo e anima acqua e fuoco, così si dice) un colloquio “o un conflitto?” con me stesso l’aspetto estivo e fervido d’una cosa maturata durante l’inverno l’aprirsi d’una porta… “una scorta devota ai recessi della tua mente (il poeta lui stesso stupisce del suo ardire), come un’ospite inattesa si siede e fa colazione insieme a noi sarà questo la poesia? capire se il divario fra idea e forma è dovuto a fortuite coincidenze a fortunate interferenze a un disturbo del pensiero o della visione; la tua prima estate di vena dopo il Miles e un inverno reticente, hai infilato i tuoi versi come i grani di un rosario: a quale scopo?” non l’avevo premeditato: furono il mio trastullo e riposo dopo le calde mattine sulla spiaggia le nostre soste per la spesa come comuni villeggianti all’Ossostore.
Creatura mia leggera, ecco tornata la stagione che tanto sospirammo nei lunghi giorni gelidi d’inverno; volubile e cangiante, primavera è come il tuo sorriso di bambina o l’umore che oggi ne disegni in pioggia gronde rondini fratello sole e sorella luna, tu e tua madre. (Se siete voi le due figure ferme sul prato perché io non sono al vostro fianco? E chi guardate così assorte avventurarsi o perdersi lontano uscito dalla vista dietro il filo del tetto? A cosa, a cosa stai pensando?) E che pensi di chi ti siede – intento a pensieri segreti tanto poco adulti tanto più sentimentali per un poeta che oggi dal dolore i suoi succhi distilla come l’ape il nettare dai fiori – di chi intento più di te al tuo disegno ti siede dietro quando ti volgi e lo guardi seria senza sorridergli? E perché ora alle tue figure aggiungi il male umano di quell’ombra che s’allunga sui giochi e sulla casa e li minaccia? Di chi è la figura fuori vista a cui l’ombra appartiene che vi volge le spalle e s’allontana? E dove va?
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