Con Lui non abbiamo contatti. Firma e sigillo: l’impronta del suo pollice. Stipuliamo impossibili contatti, di cui fingiamo attenti la lettura: corrugata la fronte, gli occhi bassi obnubilati da lacrime. Gli eletti che hanno accesso all’anticamera e gli porgono istanze alla fessura hanno il sorriso storto dei graziati, le pupille corrose dal riverbero. Le finestre non guardano che pietre, da che segarono l’albero e il fringuello portò altrove il suo canto. Adesso qui le ingobbite poiane dei telefoni gracchiano in coro, ci fanno fretta. e sempre a null’altro precipita l’ascolto che al più nudo silenzio. Noi da quello riconosciamo ch’è Lui.
Morte, se vieni per condurmi via, lascia che ombra su ombra io ripercorra la gente. In quest’incrocio di rotte casuali, ci siamo incontrati – fra vivi – così inutilmente. Per migliaia di giorni, ogni giorno: all’andata, al ritorno. Per migliaia di notti, ogni notte: coi ginocchi, coi fiati. Non ci siamo scambiati niente.
I piccoli oggetti, i piccoli amici schiavi, che tirano troppo in lungo la vita! Miei cari, vi licenzio in tronco. È più dura forse per me: ma chi monco, chi gobbo, chi spelato da lebbra; e il mazzo di chiavi risputato da ogni serratura. Gli ipocriti inermi! Bisbigliano aiuto, pietà. E s’uncinano a tutti gli appigli, a tutti i ricordi come labbra s’attaccano, come vermi. Giù nel sacco – un tonfo – coraggio! Non sarà un lungo viaggio. In cantina, il bel dormitorio. Col teatrino dei topi, il tanfo del vino, la grata (tarlata) del parlatorio per la piuma, per la foglia di passo. Tra vecchi fratelli… Diciamo che a noi padroni va peggio, quand’è l’ora nostra… Ma adesso muoviamoci, andiamo.
Io sentivo fischiare i treni per Parigi. L’aereo di Bombay fletteva l’aria, meteora di stridore. Non mi prendeva con sé la funivia – scalavo lo splendore con gli occhi – Io m’incendiavo ad un nome di cupole: Turchia. Io, tra le carcerate nel cortile in fila, ognuna il fiato sulla nuca dell’alba, e perseguite dalle verghe dell’ora – incondiviso solo il feltro del sonno -… All’improvviso, un indice puntato alle mie spalle: “È questa. Sia graziata”. Simile privilegio – perché io? Svegliata in mezzo alla notte, ancora scalza, un biglietto da viaggio stretto in mano: e mi spingono fuori – allo sbaraglio! “Non è ciò che volevi, per cui piangevi di notte?” m’incalza una voce sottile, una lisca di voce, forse d’anima. Ma è l’alba, laggiù, più verde d’una mela fresca! È sul muro la fitta nevicata del gelsomino, che più trema più odora. richiamerò il respiro – come Lazzaro. Prenderò su il mio corpo. Verso il chiarore mi metterò in cammino.
Certo che lo conosco: sul libro, in frontespizio, bianco-e-nero viso tutto concesso all’allegria, che in un’ombra comincia a intimorirsi del suo solstizio. Chi è lui vero, adesso, nelle strettoie della malattia, nell’età adulta dei figli che lo sgomina di fronte al mondo: lui, che nascosto domina dal fortilizio dei versi, alzato il ponte d’accesso, tuttavia sempre raggiunto da spie d’occhi, da venti, da farfalle – perché ha finestre aperte, non feritoie – … Che me lo centri l’anima, affacciato alla valle ove Appennino beve ammansito ai guadi del tramonto e voci estive si sperdono in faville – sfinite gioie – . Lui, feudatario mite, zigomi accesi da nubi in transumanza, tremende sopracciglia su pupille ove un riverbero impiglia lacrime e intatta ilarità d’infanzia.
Nei ghetti del mio corpo, certe notti, i cinque sensi circolano cupi sobillando lo Spirito: “A che vale il tuo slancio di fiamma, sempre eluso, i rossi rami che s’agitano e attorcono tribolati in abbracci di sé stessi – mentre il buio si svincola illeso e ripropone il dilemma – . Far da barriera ai lupi, che ti vale. all’alba sarai fumo”. In quelle notti di congiura e d’odio la fiamma geme, s’accuccia nel suo grumo di braci: e invoca che su lei s’affretti la pietà della cenere, l’assedio d’occhi ferini in circoli sempre più stretti.
Stamane sulle quattro, vagolando col mio scettro d’insonnia per la casa, senza accendere le luci, m’avvenne d’intuire alla soglia del terrazzo qualcosa, tra feroce e soave – non certo l’umidore dell’edera risalita in apnea né fatasmi di voce dalle antenne dei palazzi accosciati. – Era là fuori la notte in piena doglia; si sforzava di uscire dalle grotte di se stessa. Affannosa. Le esultava l’ampio addome di brividi, il madore ne intrideva le stelle. Fu come per una donna: trattenne un lungo attimo il fiato. E il suo dolore s’assommò, sangue ed anima, in un grido – lassù – di rosa.
Tu, che chiamiamo anima. Colore negro, odore ebreo. Tu profuga, tu reietta, intoccabile. Tu transfuga dal soffio dell’origine. Non ti spetta razione, né coperta, né foglio di reimbarco. Per registri e frontiere non esisti. Ma in sere come queste, di cangianti vaticini fra i monti, ad ogni varco può apparire improvvisa la tua faccia d’eremita o brigante. “Fronda smossa, pietra caduta…” trasale in sé il passante che la tua ombra assilla di crinale in crinale, mentre corri ridendo nell’occhiata del cielo, che ti nomina e sigilla.
E più spesso la notte, quando scorre senza difesa il rivolo dell’anima, ecco – si leva un vento fuori stagione, come questo in sonno sento baciare i muri della casa, fra bisbigli di nidi e di fogliami già trapassati: e invasa mi sorprende di fantasmi d’amore, con ludibrio e gaudio insostenibile. Ché ormai già l’autunno s’appresta e la rondine già scruta la rotta. E pende fra uno sciame alto di stelle dall’abisso notturno la Bilancia: sopra il vivere mio lucida, esatta, non turbata da venti, in equilibrio fra il cielo già trascorso e quel che resta.
Uggiola alla fessura, cagna-luce. Qualcuno il mio sonno ha legato quattro zampe in un mazzo. All’aurora chi aprirà? Voglio alzarmi. Ho paura. Nel pozzo del cranio – senza uscita –. Nel buio sacrario sconsacrato. (La luce come un’unghia sotto le porte). Capro espiatorio già caduto sul fianco, otre di sangue già mezzo vuoto – come scalci ancora forte, mia vita.
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