Il convento barocco di schiuma e di biscotto adombrava uno scorcio d’acque lente e tavole imbandite, qua e là sparse di foglie e zenzero. Emerse un nuotatore, sgrondò sotto una nube di moscerini, chiese del nostro viaggio, parlò a lungo del suo d’oltre confine. Additò il ponte in faccia che si passa (informò) con un solo di pedaggio. Salutò con la mano, sprofondò, fu la corrente stessa… Ed al suo posto, battistrada balzò da una rimessa un bassotto festoso che latrava, fraterna unica voce dentro l’afa.
IL TU I critici ripetono, da me depistati, che il mio – tu – è un istituto. Senza questa mia colpa avrebbero saputo che in me i tanti sono uno anche se appaiono moltiplicati dagli specchi. Il male è che l’uccello preso nel paretaio non sa se lui sia lui o uno dei troppi suoi duplicati.
Non ho mai capito se io fossi il tuo cane fedele e incimurrito o tu lo fossi per me. Per gli altri no, eri un insetto miope smarrito nel blabla dell’alta società. Erano ingenui quei furbi e non sapevano di essere loro il tuo zimbello: di esser visti anche al buio e smascherati da un tuo senso infallibile, dal tuo radar di pipistrello.
Tu non ricordi la casa dei doganieri sul rialzo a strapiombo sulla scogliera: desolata t’attende dalla sera in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri e vi sostò irrequieto.
Dove se ne vanno le ricciute donzelle che recano le colme anfore su le spalle ed hanno il fermo passo sì leggero; e in fondo uno sbocco di valle invano attende le belle cui adombra una pergola di vigna e i grappoli ne pendono oscillando. il sole che va in alto, le intraviste pendici non han tinte: nel blando minuto la natura fulminata atteggia le felici sue creature, madre non matrigna, in levità di forme. Mondo che dorme o mondo che si gloria d’immutata esistenza, chi può dire?, uomo che passi, e tu dagli il meglio ramicello del tuo orto. Poi segui: in questa valle non è vicenda di buio e di luce. Lungi di qui la tua via ti conduce, non c’è asilo per te, sei troppo morto: seguita il giro delle tue stelle. E dunque addio, infanti ricciutelle, portate le colme anfore su le spalle.
Tu non ricordi la casa dei doganieri sul rialzo a strapiombo sulla scogliera: desolata t’attende dalla sera in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri e vi sostò irrequieto. Libeccio sferza da anni le vecchie mura ed il suono del tuo riso non è più lieto: la bussola va impazzita all’avventura e il calcolo dei dadi più non torna. Tu non ricordi; altro tempo frastorna la tua memoria; un filo s’addipana. Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana la casa e in cima al tetto la banderuola affumicata gira senza pietà. Ne tengo un capo; ma tu resti sola né qui respiri nell’oscurità.
So l’ora in cui la faccia più impassibile è traversata da una cruda smorfia: s’è svelata per poco una pena invisibile. Ciò non vede la gente nell’affollato corso. Voi, mie parole, tradite invano il morso secreto, il vento che nel cuore soffia. La piú vera ragione è di chi tace. il canto che singhiozza è un canto di pace.
La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso molti anelli non tengono. La storia non contiene il prima e il dopo, nulla che in lei borbotti a lento fuoco. La storia non è prodotta da chi la pensa e neppure da chi l’ignora. La storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco, non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell’orario. La storia non giustifica e non deplora, la storia non è intrinseca perché è fuori. La storia non somministra carezze o colpi di frusta. La storia non è magistra di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve a farla più vera e più giusta. La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli. C’è chi sopravvive. La storia è anche benevola: distrugge quanto più può: se esagerasse, certo sarebbe meglio, ma la storia è a corto di notizie, non compie tutte le sue vendette. La storia gratta il fondo come una rete a strascico con qualche strappo e più di un pesce sfugge. Qualche volta s’incontra l’ectoplasma d’uno scampato e non sembra particolarmente felice. Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato. Gli altri, nel sacco, si credono più liberi di lui.
Ti libero la fronte dai ghiaccioli che raccogliesti traversando l’alte nebulose; hai le penne lacerate dai cicloni, ti desti a soprassalti. Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole freddoloso; e l’altre ombre che scantonano nel vicolo non sanno che sei qui.
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