Ho posato la mano sull’anima che mi porgi come cosa morbida e matura. Siamo drupe sotto l’albero del pepe, rosse. Sai di frangipani e fiume, strutto e redenzione. C’è la vita da fare, i conti, primo, sono-devo-sono, primo. Correre al tornello, gara al timbro. Farsi scannare il codice a barre sul collo. Bovini. Stiamo qui, sotto l’albero del pepe a scambiarci atomi di non curanza. Respiriamo la nostra umana nullità. Hai posato la mano sull’anima che ti porgo come cosa morbida e matura. Potevamo mangiarci. Siamo rimasti in silenzio, integri.
L’aria è acacia, è la perdita volontaria del senso aggiunto. Mi eri fratello gemmato a grappolo, mio e poi figlio, abbandonato, mai amante. L’aria è acacia con profumo bianco di sudario tra ombrelli vegetali che parlano-parlano-parlano al vento e tu non capisci fluttui, ti dissolvi inseguendo cappelli.
il dramma del corpo che arretra in ogni linea vitale è novembre che ci dice della verza ghiacciata turgida e mesta ai piedi dei cachi d’oro trafitti su rami neri le fragole d’agosto come lacci alle caviglie e ranuncoli a bottone un ordine cerchi padre una appartenenza al suolo il senso che bussa sotto l’ignoranza tra le lumache gravide di lattuga giovane non saremo redenti e luglio l’ibrido ci inganna siediti padre attendi settembre osserviamo lenti e sospesi le nostre mani nella terra semino fiori e frutti che mai saranno dipinti di Willem Kalf c’è poco nutrimento non mi hai protetto, padre da oriente sorge uno stelo ingarbugliato
Entrare nella cosa è morirne. Perdere contatto dal cavallo in corsa, abbandonare la vela gonfia in approdo, leccare sale dalle mani e farsi ciottolo. Poco prima di tutto, fermarsi e dondolare. Là dove germinava un dubbio Ofelia ha reciso il ranuncolo. Di eterno si era imbellettata, annodando un bacio a tampone fingendosi viva e vegetale. Il bacio non ha retto, ingenua paratia. Entrare nella cosa è accettarne la fine. A volte, Amleto caro, si soffre.
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