Uccidere da lontano Senza toccare. Evitare il contagio. Lavarsi le mani sporche di sangue. Lavarsi le mani nel sangue. * Gli angeli con vesti di filo spinato Gli angeli dalle lingue strappate. Gli angeli senza grido. * Di ossa facciamo spade. Armi. Da un teschio uno scudo rotondo INEDITI
Se un cavallo fosse solamente un cavallo e non tutti i terrori che fremono nella sua coscia rotonda o la tempesta che scuote la criniera se non fosse l’occhio visionario e folle che cela il segreto dell’acqua o la coda imperiale nella sua forma arcuata a sferzare lo schiavo se esso non fosse un’oscura montagna sotto di te ma – come è – un animale timoroso e irruente pronto a valersi di ogni astuzia per essere libero e giocare e tu sapessi amarlo con tenerezza ma non seriamente – quando si impenna sulla sabbia gli assesterai un colpo deciso nei fianchi spingendolo fra le onde.
L’avvampare del rosso e dei giallo con selvaggia delizia l’Orco divora i suoi bambini amando sé nella carne e nel sangue. La bellezza è forse una più intensa voracità al centro della vita? Intorno a lava incandescente gli smorti colori della cenere. Quando l’occhio cessa di essere abbagliato allora scopre le viole – dopo soltanto dopo. Schive e affollate – una corona alla luce. Cancellano l’aggressività delle corolle. Silenziosamente trasformano la sconfitta in vittoria, nude e luminose di buio. Ora non vedi che queste. Le sole a muoversi: il movimento percorre il quadro. Non più una tela cosparsa di colore, ma una pagina che si sfoglia. Alcune sono aperte, altre si inclinano, altre ancora si chiudono al vento che le investe. Sono l’ombra dei fiori luminosi, diversa dall’offerta della vita: piuttosto, ciò che essa sottrae, il velato splendore i loro gambi, lacci. Vivono una straordinaria animazione: curiose, tumultuose, si muovono in diverse direzioni Fuggono quella pennellata grigia: il turbine che sopravviene. Soggette al vento, quindi Capaci di servirsene, di sottrarsi alle insidie dei cervi e delle lepri. Poi noti il loro centro giallo un astro minuscolo nel buio: la luce è il seme. Solo alla fine scopri che le margherite nella gloria apparente del loro rosso e giallo arretrano. Ammassate contro il vaso lanciano grida di terrore e i petali sono braccia levate a proteggere i volti paonazzi di polline, teste che saranno tagliate. Ti accorgi che anche le viole sono piegate e vinte, si stanno reclinando nel vaso, muoiono. daCOLUI CHE VIENE
io senza voce voce cieca voce accecata io senz’occhi io muta e cieca io afona voce strozzata voce che strozza io parola senza voce senz’occhi io parola vibrante a tastoni gemendo voce impalata gola agnello impalato io nuda esco fuori su tacchi altissimi corpo nudo bellissimo io bellissima sfido lo sterminio parlo di me parto io danzo e canto il mondo mi vede.
Crisalide strettamente avvolta Da fasce Ancora tutta avvolta nel sogno del parto Partorita dalla nuda verticalità del rosso che ancora tutta la sommerge come chiaro sangue il rosso il rosso il rosso. Non sappiamo ancora. Nel buio del grembo fosti intero ed ora in un buio papavero di luce sei la crisalide. Ancora non sappiamo. Orizzontale traspare dentro il suo cuore rosso tinge la chiara veste che nasconde il seno rigida vuota che da un suo punto oscuro tesse l’attesa della stoffa l’attesa di quel rosso.
Fuori nevica. Una brocca sul tavolo ha rosse trasparenze. Sbucci piano la mela. Ti tenta l’avventura di quella buccia lucida che avvolge la luce della stanza. Ogni oggetto ha una sua consistenza inutile, così rassicurante, Il piatto dì lucida ceramica se l’inclini riflette un cielo nitido di calce bianca.
Non della morte, ma della metamorfosi – accettare di privarsi di sé come acqua che si lasci versare e prende forma da ciò che la contiene e corre via – e l’assorbe la terra ed è e non è più – senza pena, forse eppure non va persa. Lenta, arrischiata ogni cosa matura per un attimo di colma beatitudine poi trabocca come l’acqua di un vaso fugge la pienezza.
Dalla chiusa corteccia germogliando senza braccia né mani senza gambe né piedi tu parli o silenziosa giorno per giorno della morte fai cibo. Chi farà tacere il silenzio? Chi fermerà ciò che non si muove? Ti hanno rinchiusa, non sapevano di farti seme.
Tu che con braccia severe mi allontanavi e mi atterrivi con storie di fantasmi ora t’affacci timida da sopra il muro per timore di essere scacciata. Nevica e i tuoi piedi freddi in una vaga foschia lasciano impronte. Inconsolata mi tendi la mano, ché la speranza è anche dei morti. Così madre bambina percorri i viali tu che dominavi, incerta, finalmente un sorriso sulla chiusa falce delle labbra. Ma nevica e la giornata volge alla sua fine – nemmeno questa volta apportando il perdono o l’oblio.
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