Come nacque la parola che si staglia da fondi di rumore naturale che fece del silenzio la lavagna su cui si associarono le parole? poesie di sillabe? echi d’emozioni primordiali? canti del se riflesso in ogni cosa ? Un nome e compariva l’immagine del figlio che non torna, del padre dipartito, un racconto sembrava un film a colori. Tale magico potere aveva la parola che non potevi fare a meno di seguirla così come al richiamo di un anatra a migrare si levano le compagne in volo. Chissà che non siano state proprio le cose vive nella mente universale a farci pronunciare il loro nome e il cosmo per primo a parlare e noi con lui a pensare ad alta voce. Grandi frasi come costellazioni di parole hanno descritto terra e cielo e intessuto mitici serti a dare maestà alla tragedia umana a vincer la paura della morte. Ed era ancora il Cosmo a rivelarsi a noi: piovvero dai cieli magici racconti storie di dei pianeti nei regni zodiacali, quasi fosse il firmamento il disco fisso della memoria e l’indicibile vuoto che in noi desta un vapore saturo di gesta oltre che dell’ io sono l’androne maestoso. Non potevamo allora dubitare né chiederci cosa fosse il mondo che a noi si presentava e che eravamo era la fede il senso del reale, il cosmo il nostro cuore, e le parole la voce del signore. Da l’anima ricorda
L’anima muta al mutare che fanno le parole come la vita che emigra in terre nuove. Quale fu il percorso? se fu evoluzione o il suo opposto, se fu una via senza ritorno sbarrata da peccati originali dicci signore……. Da l’anima ricorda
Debbo essere venuto al mondo affetto da inguaribile stupore e naufrago rimasto sulla riva ancora sono bagnato dall’ignoto, da quel nero fondo prima d’esser nato mare color d’ardesia incatramato. E mi rallegra il sole col verde, il rosso, il giallo, l’azzurro ed il marrone, e la notte col nero di bianco puntinato. Nessun programma per domani, tanto deploro uno spettacolo sciupato, e più rivedo il film, più mi consolo, sono ripetente di un giorno solo. Un ripetente, che dall’ultimo banco grida presente, in nome d’un mondo vivo che in altra vita evolve pellegrino. Un naufrago che dalla sua riva di colorato incanto invoca una breccia nella morta materia di cui la vita nasce prigioniera e a cui infine si arrende. Pietà, pietà signore, di ogni sorpresa di ogni stupore, una breccia basta solo una breccia e l’anima respira. Da Lathe Biosas
Va a scrutare i disegni di Dio benedetto oggi che se gli viene un cuore con un difetto, Lui che lo ha creato non si rassegna e tesse in te il sapere e lo rammenda. Mamma sta tranquilla: se non torno… starò con gli angioletti in girotondo. Otto volte sei tornato cuore aperto, subito in piedi cipressetto svelto. Aiutavi tua madre a far la casa bella, vento che pulisce andando a spasso. In sala, diceva mamma, vai con “Vaporella” e tu le rispondevi: bello che fatto. Ogni tuo giorno poteva essere l’ultimo, e tu, cuore vissuto, lo vivevi al meglio, buono e pulito come la tua maglia, pronto a partire quando Dio comanda. Si avvicinava un’altra operazione eppure hai continuato a vivere perfetto e sei caduto, in divisa, servendo colazione a un passo da diploma e da scudetto. Ricordino i parenti e gli amici in veste nera, che ti hanno seppellito in questa terra, di vivere come te leggeri e santi che mai li vorresti cuori affranti. Da Lathe Biosas
Pensa al frammento di una costa su un mare che non esiste più. Restano le conchiglie sul selciato e un oceano d’aria che s’infrange sulla scogliera alta delle mura. Da lì vedi una mareggiata quieta di colli di creta tra cime di vulcani emersi ma non nati, isole alberate, rifugio di querce sacre da che le distrussero i romani lasciando questo pianeta in creta viva che si ricopre d’erba a primavera. Chi vive questo colle è ancora etrusco e porta per le vie gli stessi volti che trovi nel museo scolpiti in pietra, con l’espressione di un orgoglio triste di chi, dall’alto di tremila anni, pensa che sia giunta la sua ora, l’onda che finalmente supera le mura. Chiuso tra le sue pareti a faccia a vista non ricorda le querce sacre, le sacre fonti e lascia la sua città sempre più vuota e bella, sarcofago di un popolo che venerò la terra. Ma è allora che si risveglia la tua voce etrusca che dalle vuote strade il vento emana e noi disperse greggi a te richiama Volterra. Da prendere terra
A mio papà In un sentiero d’ alta montagna parlavamo con dei compagni di via, e io sottovoce; perché usiamo il tu? Vedi Daniele: basta per l’amicizia un pezzo di strada insieme e vedere quel che l’altro vede e sentire quel che l’altro sente. Sui 3 mila poi, un ghiaione, un nevaio, un passo, e già si diventa amici. Bambino che ancora non sei nato che Dio ti mandi un padre come il mio, nato col sogno di far felice il mondo. Quando mi prendeva per mano c’eravamo solo io e lui, liberi dalla paura che risuona tra ciò che è stato e ciò che sarà. Io e lui e quella consueta ma sempre nuova via che si estende tra le valli ignorate del presente, dove l’amore avvalora il mondo. Con voce calma rispondeva a tutte le mie domande, e intanto senza accorgermene mi ritrovavo indosso un mondo cucito su misura, e una grande voglia di viverci dentro. Da l’anima ricorda
Linee di onda in teoria di orizzonti, le musiche compresse in un respiro. Gerarchie di Matriosche, le voci nascoste dentro un suono; insiemi di gesti si risolvono in uno. Chi veramente avanza? non io, non io soltanto. Il nome, la persona sono solo etichette apposte sul mistero dei tanti racchiusi nell’uno, nell’io che vive tra tanti, per cui altruismo è solo simmetria, pace, equilibrio, ecologia e amando gli altri sei a te stesso caro. Coinquilini del tempo, che dentro me vivete, deponiamo paure e rancori e raccolte le flebili voci, come uccelli in stormo, leviamo un canto all’uno che in alto ci accoglie e in cui affondiamo radici: Amor che muove il sole e le altre stelle e ai naviganti intenerisce il cuor. Da Lathe Biosas
Alle pareti di questa taverna: alberi. Sul soffitto nuvole in viaggio e poi le stelle. Raccolti intorno ad una tavola scambiamo cibi e pensieri. Non ti mostrare stufo, non deludere le stelle che ci guardano come l’ultima delle novità. L’universo, fino all’ultima forchetta, è apparecchiato per questa cena all’aperto e noi non sappiamo chi veramente si nutre e pensa a questa mensa. Così di faccia, la vita è da mozzare il fiato. Restringi la visuale e ti assale la noia. Da prendere terra
La tua figura nobile e minuta la tua vocina in chiave di formica ha attraversato le voci del bar come una strada al momento giusto: ” Per me un Calippo alla coca cola, e se non c’è, al limone “. D’incanto il traffico si e fermato, come il Mar Rosso per lasciarti un varco: la gente riconosce un vero capo: uno che sa sempre quel che vuole che prevede le varie eventuali che traccia linee rette tra le cose e, senza compiti in sospeso, scorre libero ruscello nel letto del suo cuore. Alla fine è stato trovato l’ultimo Calippo dell’estate. Da l’anima ricorda
Non so se è o sarà se esiste un aldilà, o solo il vuoto in cui, come noccioli spersi, ci si diradi spenti in oscuri universi. Ma vivere è un gioco senza fine, un solitario che si svolge in compagnia, ogni arresto è mortale e vince chi continua. Possibile che messi fuori prima del limite non possiamo neanche seguire il seguito in panchina. Ma togli dalle regole la morte e addio partita. Lasciamo il campo come ultima chance, perché continui il gioco noi moriamo, ma è lui che vive e ci somiglia e muore. Il giocatore è il gioco e insieme ce ne andiamo Da fammi veder le stelle
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