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Sono passati gli anni della pioggia

Carlo Carabba

Carlo Carabba

 

Sono passati gli anni della pioggia
e non ho moglie o botte,
siedo allo stesso lume,
dove di notte scrivo, se non esco.
All’università ho trascorso i pomeriggi,
qualche mattina – era gennaio
e il bar era deserto, raccontavi
del modo in cui era morto tuo marito
(tuo figlio era presente) e io ascoltavo.
Lo scorso settembre, in campagna,
la festa dell’inizio dell’autunno, come
l’avevano chiamata
“che non andremo più la notte, ecc.”.
Abbiamo litigato in macchina
incerti se partire
quasi un’ora di strada fosse un viaggio.
Ridevamo al ritorno a cuore pieno
come se poi davvero
fosse l’ultima volta
e non andremo più la notte.
Da qui sono partito
qui dove non arrivo.

Carlo Carabba

(Roma, 1980), da Gli anni della pioggia (PeQuod, 2008)

La giovinezza è ancora

Carlo Carabba

Carlo Carabba

 

La giovinezza è ancora
passare sul Gianicolo di notte
sopra i profili incerti
di occhiali rotti e solo un occhio buono.
Ma in cima sono strade
sconosciute
svolte sbagliate curve e giro a vuoto.
Le macchine affiancate
sono cattivi presagi troppa luce.
E la mia mente è liscia come una fontana
sopra la quale passano i ricordi
le sensazioni appena
vissute e già passate –
dove vorrei tempesta è la bonaccia
e uniti, come è giusto,
paura e desiderio.

Carlo Carabba

(Roma, 1980), da Canti dell’abbandono (Mondadori, 2011)

L’eclissi

Carlo Carabba

Carlo Carabba

 

Dov’era la luna? Il cielo era chiuso
dai tetti, e tutti tendevano
la testa e il collo, per vederla meglio.
E anch’io. L’ho vista farsi rossa.
Ho abbassato gli occhi. Un lampione. Solo,
padrone della scena,
pareva lui la luna
in una notte buia. Illuminava
le geometrie essenziali
delle periferie, e mi domandava,
muto, che c’entrava la luna
l’eclissi e il moto dei pianeti,
con tutti quei palazzi
e quelle strade.
Claudio Carabba (Roma, 1980), da I canti dell’abbandono (Mondadori, 2011)

A mio padre

Carlo Carabba

Carlo Carabba

 

Prenderò forse un giorno questo treno
su cui, da molto tempo,
non sarò più salito. Sempre
lo stesso viaggio, i monti da una parte
di là il mare. Non mi starai aspettando
a Pietrasanta dove ti vedevo
dallo scompartimento che fumavi.
Di solito però il treno era un altro
dalla stazione a casa
la camminata breve, il carico
leggero. Era Firenze
e i muri così grigi, e i tetti così chiusi
e l’Arno aperto.
Sono in ritardo mangio
il pranzo riscaldato chiacchieriamo,
e ogni parola tace
più di quanto non dice
costretta nello sforzo di coprire
la cadenza romana
che a Roma, spesso, accentuo,
domenica guardiamo la partita.
La vedo, normalmente,
sdraiato sul mio letto o sul divano
senza di te, lontano.
Il desiderio d’essere a tua immagine
e somiglianza
l’amore, a volte l’odio la paura
d’esserti figlio sotto condizioni
riceverò il tuo affetto solamente
se ti sarò piaciuto.
Per te, forse, lo stesso.
Mi venivi a trovare da bambino:
era il giorno del primo dei ricordi
siamo andati allo zoo, ridevi
e mi sporgevi verso
la vasca degli orsi polari
qualcuno ci ha fatto una foto.
Con te portavi doni
giochi pupazzi e qualche scatto d’ira
che più tardi ho imitato. Firenze ancora
e è notte, la cucina
la scopa a nove carte, tradizione
di famiglia giocasti
col nonno che ho conosciuto appena
la notte prima dell’operazione.
Parli della tua vita, va il mio sguardo
sulla tovaglia a quadri azzurri
e bianchi, ascolto la tua voce
che mi racconta storie, padre a figlio.
Carlo Carabba (Roma, 1980), da Canti dell’abbandono (Mondadori, 2011)