Amare gli altri è una pesante croce, ma senza tortuosità sei bella e della tua vaghezza il segreto è pari alla comprensione della vita. In primavera è udibile il fruscio dei sogni e il sussurro di verità e notizie. D’una famiglia sei di princìpi tali Il tuo senso è altruista come l’aria. E’ facile destarsi e veder chiaro, Svuotare il cuore del pattume verbale e vivere senza insozzarsi per l’avvenire. Tutto questo non è scaltrezza grande.
Rivoltando il collo della camicia, irsuto, come un busto di Beethoven, copre col palmo come pedine i sogni e la coscienza, la notte e l’amore. E una dama nera con furia e angoscia predispone alla fine del mondo cavaliere a cavallo contro le pedine. Nel giardino ove dalla cantina, dal gelo esclamazioni fragranti mandano le stelle, come un usignolo sulla vite di Isotta raggelano i singhiozzi di Tristano. E giardini, recinti e stagni e l’universo che ferve di bianchi lamenti, non sono che corrente di passione a lungo accumulata nei cuori.
Essere donna è un gran passo, fare impazzire, eroismo. E io dinnanzi al miracolo di mani, schiena, spalle e di un collo di donna con devozione di servo la vita tutta riverisco. Ma per quanto la notte m’incateni con un anello d’angoscia, più forte è al mondo l’aspirazione ad evadere e la passione attira alle rotture.
Sotto il salice avvinto dall’edera, cerchiamo scampo all’intemperie. Ci ripara le spalle un mantello, intorno a te le mie braccia si avvincono. Ma no. Le piante nel folto non s’avvolgono d’edera, ma d’ebrietà. Stendiamo, allora, questo mantello sotto di noi in tutta la sua ampiezza.
Alberi stanno presso l’acqua eretti, e il meriggio dalla riva scoscesa ha gettato negli stagni le nuvole, come palàmiti di pescatore. Rete a strascico, affonda il firmamento e in questo cielo, come in una rete, la folla dei bagnanti nuota: uomini, donne e bambini. Cinque-sei donne nel vincheto escono sulla riva senza rumore e sulla sabbia strizzano i costumi da bagno. E a guisa di colubri si snodano e si attorcono le spire dei filati, quasi che serpente-tentatore si nascondesse nell’umido tricot. Oh donna, aspetto e sguardo tuoi non mi turbano affatto. Sei tutta come morsa della gola quand’è dall’emozione stretta. Tu sei plasmata come in un abbozzo, quale riga di un altro ciclo, come se veramente nel sonno dal mio costato fossi spuntata. E subito sfuggita dalle mani e dall’abbraccio sgusciata, tu stessa sconcerto e sgomento e spasmo del cuore dell’uomo.
Superato il limite del cortile, gli ospiti con I’armonica si riversarono in casa della sposa a iar bisboccia fino al mattino. Detro I’uscio padronale rivestito di feltro dall’una alle sette tacquero gli sprazzi di cicaleccio. Ma con l’alba, in pieno sonno, e solo dormire si vorrebbe, riprese a cantare I’armonica, lasciando la festa di nozze. E diffuse il suonatore di nuovo sull’organetto i guizzo delle mani, il brillio degli orpelli, il frastuono e il baccano della festa. E di nuovo, di nuovo, di nuovo la garrulità d’una castuska invase sul letto i dormienti ‘ dritto dalla bisboccia. Mentre una come neve, bianca, tra frastuono, fischi e baccano di nuovo ondeggiò pavona, i fianchí dimenando. E lieve agitava il capo e la mano desffa nel ballabile per il selciato, pavona, pavona, pavona. D’un tratto la foga e il fragore del gioco, il trepestio del girotondo, precipitando in un orido, sparirono senza traccia. Si destava chiassoso il cortile, l’eco d’un tramestio si mischiava a parole e a scoppi di risa. Su nell’immensità del cielo, turbine di macchie grigio-azzurre, dalle colombaie s’è levato nugolo di colombi in volo. Come se dietro alla festa di nozze, riprendendosi nel dormiveglia con l’augurio di molti anni li avessero mandati all’inseguimento. Anche la vita è un istante soltanto, solo un dissolversi di noi stessi negli altri come in dono. Solo una festa di nozze che dal basso irrompe nelle finestre, solo una canzone, solo un sogno, solo un colombo grigio-azzurro.
La neve cade, la neve cade Alle bianche stelline in tempesta Si protendono i fiori del geranio Dallo stipite della finestra: La neve cade e ogni cosa è in subbuglio, ogni cosa si lancia in un volo, i gradini della nera scala, la svolta del crocicchio. La neve cade, la neve cade, come se non cadessero i fiocchi, ma in un mantello rattoppato scendesse a terra la volta celeste. Come se con l’aspetto di un bislacco Dal pianerottolo in cima alle scale, di soppiatto, giocando a rimpiattino, scendesse il cielo dalla soffitta. Perché la vita stringe. Non fai a tempo A girarti dattorno, ed è Natale. Solo un breve intervallo: guardi, ed è l’Anno Nuovo. Densa, densissima la neve cade. E chi sa che il tempo non trascorra Per le stesse orme, nello stesso ritmo, con la stessa rapidità o pigrizia, tenendo il passo con lei? Chi sa che gli anni, l’uno dietro l’altro, non si succedano come la neve, o come le parole d’un poema? La neve cade, la neve cade, la neve cade e ogni cosa è in subbuglio: il pedone imbiancato, le piante sorprese, la svolta del crocicchio.
Era pieno inverno. Soffiava il vento della steppa. E aveva freddo il neonato nella grotta Sul pendio della collina. L’alito del bue lo riscaldava. Animali domestici stavano nella grotta, sulla culla vagava un tiepido vapore. Scossi dalle pelli le paglie del giaciglio e i grani di miglio, dalle rupi guardavano assonnati i pastori gli spazi della mezzanotte. Lontano, la pianura sotto la neve, e il cimitero e recinti e pietre tombali e stanghe di carri confitte nella neve, e sul cimitero il cielo tutto stellato. E lì accanto, mai vista sino allora, più modesta d’un lucignolo alla finestrella d’un capanno, traluceva una stella sulla strada di Betlemme. … Per quella stessa via, per le stesse contrade degli angeli andavano, mescolati alla folla. L’incorporeità li rendeva invisibili, ma a ogni passo lasciavano l’impronta d’un piede. Una folla di popolo si accalcava presso la rupe. Albeggiava. Apparivano i tronchi dei cedri. E a loro, “chi siete? ” domandò Maria. “Noi, stirpe di pastori e inviati del cielo, siamo venuti a cantare lodi a voi due”. “Non si può, tutti insieme. Aspettate alla soglia”. Nella foschia di cenere, che precede il mattino, battevano i piedi mulattieri e allevatori. Gli appiedati imprecavano contro quelli a cavallo; e accanto al tronco cavo dell’abbeverata mugliavano i cammelli, scalciavano gli asini. Albeggiava. Dalla volta celeste l’alba spazzava, come granelli di cenere, le ultime stelle. E della innumerevole folla solo i Magi Maria lasciò entrare nell’apertura rocciosa. Lui dormiva, splendente, in una mangiatoia di quercia, come un raggio di luna dentro un albero cavo. Invece di calde pelli di pecora, le labbra d’un asino e le nari d’un bue. I Magi, nell’ombra, in quel buio di stalla Sussurravano, trovando a stento le parole. A un tratto qualcuno, nell’oscurità, con una mano scostò un poco a sinistra dalla mangiatoia uno dei tre Magi; e quello si voltò: dalla soglia, come in visita, alla Vergine guardava la stella di Natale.
Non agitarti, non piangere, non affaticare le forze estenuate e il cuore non torturare. Tu sei viva, sei in me, nel mio petto, come caposaldo, come amico, come caso. Con la fede nel futuro non temo di apparire a te ciarlatano. Non siamo vita noi, né unione d’anime: l’inganno reciproco tronchiamo. Dalla tifica angoscia dei materassi ecco all’aria delle ampiezze esemplare! Mi è fratello e braccio. Tale che come lettera ti è indirizzata. Lacera la vastità sua come lettera, con l’orizzonte instaura una corrispondenza, vinci lo spossamento logorante, la conversazione conduci in lingua alpina. E sul piatto dei laghi bavaresi col midollo delle montagne, come ossa, ti convincerai che non sono un parolaio con la parola dolce pronta per l’occasione. Buon viaggio. Buon viaggio. Il nostro legame l’onore nostro non sono sotto il tetto di una casa. Come germoglio alla luce raddrizzandoti, guarderai ogni cosa in altro modo.
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