Il Giusto stava eretto sui solidi fianchi: Un raggio gl’indorava la spalla; cominciai A sudare: “Vuoi vedere risplendere i bolidi? E ascoltare, in piedi , come ronza il flusso Degli astri lattei, e gli sciami d’asteroidi? “La tua fronte è spiata dalle farse notturne, O Giusto! Devi trovarti un tetto. Di’ la tua preghiera, La bocca nel tuo lenzuolo dolcemente espiato; E se qualche sperduto busserà al tuo ostiario, Fratello, vai altrove, io sono storpio!” E il Giusto restava in piedi, nello spavento Bluastro d’erba dopo la morte del sole: “Dunque, vorresti vendere le tue ginocchiere, O Vecchio? Pellegrino sacro! Bardo d’Armor! Piagnone degli Ulivi! Mano che la pietà inguanta! “Barba della famiglia e pugno della città, Credente molto dolce: o cuore caduto nei calici, Maestà e virtù, amore e cecità, Giusto! Più sciocco e disgustoso di una cagna! Io sono colui che soffre e che si è ribellato! “E mi fa piangere sul mio ventre, o stupido, E ridere, la famosa speranza del tuo perdono! Sono maledetto, lo sai! Sono ubriaco, pazzo, livido, Quello che vuoi! Ma vatti a nascondere, va’ dunque, Giusto! Non voglio niente dal tuo torpido cervello. “Insomma, tu sei il Giusto, il Giusto! Basta! È vero che la tua tenerezza e la tua ragione serena Sbuffano nella notte come cetacei! Che ti fai proscrivere, e snoccioli lamenti Su spaventose maniglie fracassate! “E saresti tu l’occhio di Dio! Vigliacco! Anche se le piante Fredde dei piedi divini passassero sul mio collo, Tu saresti un vigliacco! Oh fronte che brulica di pidocchi! Socrate e Gesù, Santi e Giusti, che schifo! Onore al sommo Maledetto nelle notti sanguinanti!” Questo avevo urlato sulla terra, e la notte Calma e bianca occupava i cieli durante la mia febbre. Rialzai la fronte: il fantasma era fuggito, Portandosi via l’ironia atroce del mio labbro… – Venti notturni, venite dal Maledetto! Parlategli! Mentre, silenzioso sotto i pilastri D’azzurro, prolungando le comete e i nodi Dell’universo, enorme rivolgimento senza disastri, L’ordine, che eterno veglia, rema nei cieli luminosi, E dalla sua draga in fiamme lascia filare gli astri! Ah! che se ne vada, lui, la gola incravattata Di vergogna, ruminando sempre la mia noia, Dolce come lo zucchero sui denti cariati. – Simile alla cagna che dopo l’assalto dei fieri maschietti Si lecca il fianco da cui pende un budello strappato. Proclami pure la sua sudicia carità e il progresso… – Odio tutti quegli occhi da cinesi panciuti, E chi canta: nanna, come un mucchio di bambini Vicini alla morte, dolci idioti dalle improvvise canzoni: O giusti, noi cacheremo nei vostri ventri d’argilla!
Oh vili, eccola! Riversatevi nelle stazioni! Il sole ha spolverato con i polmoni ardenti I viali, infestati dai Barbari una sera. Ecco la Città santa, che siede in occidente! Su! sapremo prevenire i riflussi d’incendio, Eccovi il lungofiume, ecco i viali, ecco Le case sull’azzurro leggero che s’irradia, E una sera fu stellato dal rosso delle bombe! Celate in nicchie d’assito i palazzi morti! L’antica luce attonita vi rinfresca gli occhi. Ecco la mandria fulva, le dimenatici d’anche: Su, impazzite, sarete buffi se perdete la testa! Torma di cagne in foia mangiatrici d’impiastri, Il grido delle case d’oro vi designa. Andate! Mangiate! La notte di gioia dagli spasmi profondi Va per le strade. Oh bevitori sconsolati, Bevete! Quando irrompe la luce intensa e pazza, Frugando accanto a voi quei lussi straboccanti, Non sbaverete dunque, senza un gesto, muti, Nei bicchieri, con gli occhi persi in lontananze bianche? Mandate giù, per la Regina dalle natiche flaccide! Ascoltate l’azione degli stupidi rutti Laceranti! Ascoltate il ballo nelle notti ardenti Degli idioti e dei vecchi, dei buffoni e dei servi! Oh cuori di sporcizia, oh bocche orripilanti, Funzionate un po’ meglio, bocche di fetore! Qua, sul tavolo, un vino per i torpori ignobili… L’epa vostra si strugge nella vergogna, oh Vincitori! Dilatate le narici alle nausee superbe! Ammollate in veleni forti i tendini del collo! Il Poeta incrocia sulle vostre nuche puerili Le mani, e vi dice: “Oh vili, siate folli! Poi che frugate nel ventre della Donna, Da lei temete un’altra convulsione Che urli e vi soffochi, infame nidiata, Sopra il suo petto, in un amplesso orrendo. Sifilitici, matti, buffoni, re, ventriloqui, Che importanza mai avranno per Parigi puttana I vostri corpi e l’anima, e i veleni e gli stracci? Saprà scrollarvi di dosso, putridi di bile! Quando sarete giù, sfiniti, lombi morti, a gemere Sulle viscere vostre, a chiedere i vostri soldi, La rossa meretrice pregna di battaglie Torcerà gli ardui pugni lontano dai vostri stupori! E avevano danzato con tanta forza i tuoi piedi Nell’ira, Parigi! E fosti colpita da tante Coltellate, e giaci, serbando nelle tue pupille chiare La dolcezza, un poco, d’una fulva rinascita, Oh città dolorosa, oh città quasi morta, Col viso e con il seno rivolti all’Avvenire Che al tuo pallore apre infinite porte, Città che forse il passato cupo benedice: Corpo rifatto magnetico per stenti immani, Tu bevi di nuovo la vita terribile! tu senti Nelle vene sgorgare il livido flusso dei vermi E sul tuo amore chiaro senti le dita di gelo! E non è un male. I vermi, i lividi vermi, Non freneranno in te il soffio del Progresso Più che le Strigi abbiano spento l’occhio alle Cariatidi Dove un pianto d’oro astrale scendeva dai gradi azzurri”. Benché sia tremendo vederti così offesa; Benché nessuno mai d’una città abbia fatto Ulcera più fetida nella verde Natura, Il poeta ti dice: “La tua bellezza è stupenda!” L’uragano ti consacrò suprema poesia; L’immenso fermento delle forze ti assiste; L’opera ferve, la morte romba, oh Tu prescelta! Aduna gli stridori in seno alla tromba sorda. Il poeta prenderà agli Infami il singhiozzo, L’odio ai Forzati, il clamore ai Maledetti; I raggi del suo amore sferzeranno le Donne. Balzeranno le strofe: Ecco! banditi! ecco! – Società, ristabilito è l’ordine: – le orge Piangono il vecchio rantolo ai vecchi lupanari: E i gas in delirio, sui muri arrossati, Avvampano sinistri verso gli smorti azzurri! Maggio 1871
L’uomo pallido va lungo aiuole fiorite, Con il sigaro ai denti, vestito di nero: L’Uomo pallido ripensa ai fiori delle Tuileries – E a volte l’occhio scialbo ha uno sguardo ardente… Ebbro, è l’Imperatore, per i vent’anni d’orgia! Si era detto: “Sulla Libertà voglio soffiare Delicatamente, come su una candela!” La Libertà rivive! Lui si sente sfiancato! Prigioniero. – Oh! quale nome sulle labbra mute Trasale? Quale implacabile rimpianto lo morde? Non lo sapremo. L’Imperatore ha l’occhio spento. Ripensa forse al Compare occhialuto… – Come In quelle serate di Saint – Cloud, guarda filare Dal sigaro acceso una nuvoletta azzurra.
Mentre gli sputi rossi della mitraglia Fischiano tutto il giorno nell’infinito azzurro del cielo; E scarlatti o verdi, accanto al re che li deride I battaglioni crollano in massa nel fuoco; Mentre un’orrenda follia massacra Centomila uomini in un mucchio fumante; – Poveri morti! Nell’estate, nell’erba, nella tua gioia, Natura! tu che santamente creasti questi uomini!… – – C’è un Dio, che ride sulle tovaglie damascate Degli altari, fra l’incenso, fra i grandi calici d’oro; Che cullato dagli osanna si addormenta, E si risveglia quando madri, raccolte Nell’angoscia, piangendo sotto la vecchia cuffia nera Gli offrono qualche moneta nel loro fazzoletto.
Palazzo delle Tuileries, verso il 10 agosto 1792 Col braccio sul martello gigante, tremendo D’irruenza e grandezza, fronte vasta, ridendo Come una tromba di bronzo, con tutta la bocca, E avvinghiando allo sguardo feroce quel grassone, Il fabbro parlava con Luigi Sedici, un giorno Che il Popolo smanioso gli stava intorno, Strusciando su quegli ori i suoi panni sporchi. Ora il buon re, ritto sulla pancia, era livido, Livido come un vinto da portare alla forca, E, umile come un cane, non recalcitrava, Ché il fabbro, quel birbante dalle spalle enormi, Gli diceva parole vecchie e cose strambe, Da agguantarlo dritto in fronte, così! “Padron mio, tu lo sai, cantavamo larallà, Pungolando i buoi verso i solchi degli altri: Il Canonico al sole filava paternostri Sul bel rosario a grani di monete d’oro. Il Signore, a cavallo, passava a suon di corno, E chi con il capestro, chi con lo scudiscio, Ci accarezzavano. – I nostri occhi, sbarrati Come occhi di mucca, non piangevano più; Si andava, si andava, e quando i campi Erano tutti suddivisi a solchi, quando Avevamo lasciato in quella terra nera Un po’ di carne nostra… ci davano la mancia: Davano fuoco, la notte, alle nostre stamberghe; I nostri figlioli là dentro erano focacce ben cotte. … “Oh! Non è per lagnarmi. Dico le mie sciocchezze, Rimanga fra noi. Puoi anche contraddirmi. Dì, non è festa vedere, al mese di giugno, L’ingresso ai granai dei carri da fieno Enormi? Sentire l’odore dei germogli, Dei frutteti quando piove un po’, dell’erba fulva? Vedere biade e biade, spighe piene di grani, E dirsi che tutto ciò prepara tanto pane?… Oh! andremmo più forti alla fucina ardente, A cantare gioiosi martellando l’incudine, Se fossimo sicuri d’avere almeno in parte, Dato che siamo uomini! quello che dona Iddio! – Ma no, è la solita vecchia storia di sempre! “Ormai lo so. Io non posso più credere, Poi che ho due buone mani, una fronte e un martello Che un altro venga lì, la daga sul tabarro, E dica: Ehi! tu, semina sulla mia terra; Che vengano addirittura, se ci fosse la guerra, A pigliarsi mio figlio, così, nella mia casa! – Io dunque sarei un uomo, e tu, saresti un re, Potresti dirmi: Voglio!… – Lo capisci, che è stupido. Credi che a me piaccia vedere la tua baracca, i tuoi Ufficiali infronzoliti, i mille furfanti, i moscardini Bastardi che fanno la ruota dei pavoni: Hanno riempito il tuo covo con l’odore delle nostre Ragazze, e coi biglietti, per spedirci alle Bastiglie. Ora dovremmo dire: Bravo; i poveri, in ginocchio! Indoreremo il Louvre, dandoti i nostri soldi! E tu ti ubriacherai, tu farai festa grossa. – E lorsignori a ridere, e noi, giù con la testa! ” No. Sudicerie che datano dai nostri vecchi. Il Popolo non è più una puttana. Tre passi, e noi tutti Abbiamo ridotto in polvere la tua Bastiglia. Una bestiaccia che trasudava sangue da ogni pietra Ed era sconcia, la Bastiglia in piedi Con i muri rognosi che ci raccontavano Tutto, tenendoci rinchiusi in quel buio! – Cittadino, cittadino, era il cupo passato A rantolare, a crollare, quando prendemmo la torre! In noi c’era qualcosa di simile all’amore. Avevamo premuto i nostri figli al petto. E simili a cavalli dalle froge Fumanti, noi andavamo, fieri e forti; Sentivamo questo pulsare, qui… Camminavamo nel sole a fronte alta, – così,- Per le vie di Parigi! Si accorreva, Verso le nostre luride casacche. Finalmente! Eravamo Uomini! Pallidi, Sire, ubriachi di tremende speranze: E quando fummo sotto i torrioni neri Agitando le trombe e le foglie di quercia, Con le picche nel pugno; in noi non c’era odio, – Ci sentivamo tanto forti, volevamo essere buoni! “E da quel giorno, siamo quasi impazziti! Gli operai si sono ammucchiati nelle strade, Vanno, quei maledetti, orda sempre più folta Di cupi resuscitati, alla porta dei ricchi. Io corro con loro a trucidare le spie: Me ne vo per Parigi, nero, col mio martello, Feroce, ogni tanto spazzando via un buffone, E anche te ammazzerò, se mi ridi sul muso! – Dopo, sta’ certo, avrai da fare con i tuoi Uomini neri, che delle nostre istanze Fanno pallottole per giocare al volano Sussurrando astuti fra loro: ” Che balordi!” E cucinano leggi, incollano vasetti Colmi di decreti in rosa e intrugli drogati, Godendo a rifilare per bene qualche taglia, Poi si tappano il naso se passiamo noi, – Fini rappresentanti, che ci trovano sporchi! – E non hanno paura di niente, ma di niente, Se non delle baionette… Va bene, adesso basta, Con queste tabacchiere contafrottole! Non ne possiamo più di quei cervelli piatti, Di quei domeneddio. Ah! queste son le pietanze Che ci servi, compagno, quando siamo spietati, Quando mandiamo in briciole pastorali e scettri!…” Lo afferra per un braccio, strappa via il velluto Dei tendaggi; e là sotto gli addita i cortili Vasti ove brulica, brulica, e si gonfia la folla, La folla tremenda che ha il mugghio dell’onda, Che ha un urlo di cagna, che ha un urlo di mare, Coi rudi bastoni, le picche di ferro, i tamburi, Con le sue grida di mercato e di bettola, Groppo di cupi cenci, cui è sangue il berretto rosso L’Uomo, dalla finestra spalancata, li addita Al livido e madido re che a quella vista, Disfatto, vacilla! “Eccoti la Marmaglia, Sire. Sbavano ai muri, si espandono, pullulano, – Non mangiano, Sire, e dunque son canaglie! Io sono un fabbro: mia moglie è con loro, Pazza! Che s’illude di trovare pane alla Reggia! – Gente come noi, i fornai non ne vogliono. Ho tre bambini. Anch’io son marmaglia. – Conosco Vecchie in lacrime sotto la cuffia Perché gli hanno preso il ragazzo o la figlia: Marmaglia. – Un uomo era alla Bastiglia, Un altro era forzato: entrambi, cittadini Onesti. Scarcerati, sono cani. Li insultano! Allora, sentono qui una cosa, Che gli fa male, capisci! E’ tremendo, E sentendosi spezzati, sentendosi dannati, Adesso, là sotto, vi urlano in faccia! Marmaglia. – Fra loro ci son femmine Infami, perché, – si sa, son deboli, le donne!- Signori cortigiani, – si sa, ci stanno sempre!,- Gli avete, come niente, insudiciato l’anima. Eccole, adesso, le vostre amanti. Marmaglia. “Oh, tutti gli Infelici, coloro che hanno la schiena Arsa dal sole crudele, e che vanno, e che vanno, E a quel lavoro sentono spaccarsi la fronte… Giù il cappello, borghesi! Questi, sono gli Uomini! Siamo Operai, Sire! Operai! Siamo per i nuovi Tempi grandiosi in cui si cercherà di sapere, In cui l’Uomo costruirà dal mattino alla sera, Volendo grandi effetti, volendo cause grandi, Quando, vincitore cauto, domerà le cose, E come in groppa a un cavallo salirà sul Tutto! Oh! Splendidi bagliori delle fucine! Di più, Dobbiamo penare di più! – quel che ignoriamo Sarà forse terribile: Sapremo! – Con il martello in pugno, passeremo al vaglio Ciò che sappiamo: e poi, Fratelli, avanti! A volte il nostro è un gran sogno pietoso Di vita ardente e semplice, e lavoro, senza Male parole, all’ombra del sorriso augusto Di una donna amata con nobile amore: Lavoreremmo fieri tutto il giorno, Ascoltando il dovere come tromba che squilla: E saremmo felici; e soprattutto Nessuno, oh! Nessuno potrebbe mai piegarci! Sopra il camino avremmo un fucile… “Oh! Ma l’aria è tutto odore di battaglia! Che ti dicevo? Anch’io sono marmaglia! Ancora Rimane qualche incettatore, qualche spia. Siamo liberi, noi! Conosciamo terrori In cui ci sentiamo grandi, tanto grandi! Ti parlavo Poco fa di un dovere calmo, di una casa… Ma tu, guarda il cielo! – E’ troppo esiguo per noi, Soffocheremmo dal caldo, saremmo in ginocchio! Ma tu, guarda il cielo! – Io torno tra la folla, Nella grande marmaglia tremenda, che spinge, Sire, i tuoi cannoni antichi sui sozzi selciati: – Oh! Quando saremo morti, li avremo lavati – E se contro le nostre urla, contro la nostra vendetta, Le zampe dei vecchi re spronano in Francia I reggimenti vestiti a festa, ebbene, voi Tutti, mi udite? – Merda per quei cani!” – Riprese il martello. La folla Vicino a quell’uomo si sentiva inebriata, E nel cortile vasto, negli appartamenti Dove urlando Parigi ansimava, Un fremito agitò l’immensa popolaglia. Allora, con l’ampia mano superba di sporcizia, E benché il re panciuto sudasse, il Fabbro, Terribile, sul viso gli scagliò il berretto rosso!
E’ un anfratto verde dove canta un fiume Appendendo follemente all’erba i suoi stracci D’argento; dove il sole, dalla fiera montagna Risplende: è una piccola valle spumeggiante di raggi. Un giovane soldato, la bocca aperta, il capo nudo, E la nuca immersa nel fresco nasturzio azzurro Dorme; è steso nell’erba, sotto le nuvole, Pallido nel suo verde letto dove la luce piove. Ha i piedi fra i gladioli, dorme. Sorridendo come Sorriderebbe un bimbo malato, fa una dormita: Natura, cullalo tiepidamente: ha freddo. I profumi non fanno fremere le sue narici; Lui dorme nel sole, la mano sul petto Tranquillo. Ha due buchi rossi sul lato destro. Ottobre 1870
Il mio triste cuore sbava a poppa, Il mio cuore è pieno di trinciato: Gli lanciano schizzi di zuppa, Il mio triste cuore sbava a poppa: Sotto i lazzi della truppa Che scoppia in una risata generale, Il mio triste cuore sbava a poppa, Il mio triste cuore è pieno di trinciato! Itifallici e soldateschi I loro lazzi l’han depravato! Al timone si vedono affreschi Itifallici e soldateschi. Oh flutti abracadabranteschi, Prendete il mio cuore, che sia lavato! Itifallici e soldateschi, I loro lazzi l’han depravato! Quando avranno finito quelle cicche, Che fare, o cuore rubato? Ci saranno bacchici rutti Quando avranno finito le cicche: Avrò un voltastomaco Se il mio cuore triste è svilito. Quando avranno finito quelle cicche, Che fare, o cuore rubato?
Mentre discendevo i Fiumi impassibili, Non mi sentii più guidato dai bardotti: Pellirossa urlanti li avevano bersagliati Inchiodandoli nudi ai pali variopinti. Ero indifferente a tutto l’equipaggio, Portavo grano fiammingo o cotone inglese. Quando coi miei bardotti finirono i clamori, Mi lasciarono libero di discendere i Fiumi. Nello sciabordio furioso delle maree, Io l’inverno scorso, più sordo del cervello d’un bambino, Correvo! E le Penisole andate Non subirono mai sconquassi più trionfanti. La tempesta ha benedetto i miei marittimi risvegli. Più leggero di un sughero ho danzato sui flutti Che si dicono eterni avvolgitori di vittime, Dieci notti, senza rimpiangere l’occhio insulso dei fari! Più dolce che per il bimbo la polpa di mele acerbe L’acqua verde filtrò nel mio scafo d’abete E dalle macchie di vini azzurri e di vomito Mi lavò disperdendo l’ancora e il timone. E da allora mi sono immerso nel Poema del Mare, Intriso d’astri, e lattescente, Divorando gli azzurri verdi; dove, relitto pallido E rapito, un pensoso annegato a volte discende; Dove, tingendo a un tratto le azzurrità, deliri E ritmi lenti sotto il giorno rutilante, Più forti dell’alcol, più vasti delle nostre lire, Fermentano gli amari rossori dell’amore! Conosco cieli che esplodono in lampi, e le trombe E le risacche e le correnti: conosco la sera, L’Alba che si esalta come uno stormo di colombe! E a volte ho visto ciò che l’uomo ha creduto di vedere! Ho visto il sole basso, macchiato di mistici orrori, Illuminare lunghi coaguli viola, Simili ad attori di antichissimi drammi, I flutti che lontano rotolavano in fremiti di persiane! Ho sognato la verde notte dalle nevi abbagliate, Bacio che lentamente sale agli occhi dei mari, La circolazione delle linfe inaudite, E il risveglio giallo e blu dei fosfori canori! Ho seguito, per mesi interi, come mandrie isteriche, I marosi all’assalto delle scogliere, Senza pensare che i piedi luminosi delle Marie Potessero forzare il muso degli affannosi Oceani! Ho urtato, sapete, Floride incredibili Che mescolavano fiori ad occhi di pantere Dalla pelle umana! Arcobaleni tesi come redini Sotto l’orizzonte dei mari, a glauche greggi! Ho visto fermentare paludi enormi, nasse Dove marcisce fra i giunchi un intero Leviatano! Crolli d’acqua in mezzo alle bonacce E lontananze che precipitavano negli abissi! Ghiacciai, soli d’argento, flutti di madreperla, cieli di brace! Orrendi incagli sul fondo di golfi bruni Dove serpenti giganti divorati da cimici Cadono da alberi contorti, dagli oscuri profumi! Avrei voluto mostrare ai bambini quelle orate Dell’onda azzurra, quei pesci d’oro, quei pesci canori. – Schiume di fiori mi hanno cullato mentre salpavo E ineffabili venti per un istante mi hanno messo le ali. A volte, martire affaticato dai poli e dalle zone, Il mare i cui singhiozzi rendevano dolce il mio rullio Tendeva verso di me i suoi fiori d’ombra dalle gialle ventose E io restavo lì, come una donna in ginocchio… Quasi un’isola, sballottando sulle mie sponde i litigi E lo sterco di uccelli schiamazzanti dagli occhi biondi, E io vogavo, mentre attraverso i miei fragili legami Gli annegati scendevano a dormire, a ritroso! Ora io, battello perduto sotto i capelli delle anse, Scagliato dall’uragano nell’aria senza uccelli, Io di cui né i Monitori né velieri Anseatici Avrebbero ripescato la carcassa ebbra d’acqua; Libero, fumante, cinto da nebbie violacee, Io che foravo il cielo rosseggiante come un mulo Che porta, squisita marmellata per i bravi poeti, I licheni del sole e i moccoli d’azzurro, Io che correvo, macchiato da lunule elettriche, Folle legno, scortato da neri ippocampi, Quando luglio faceva crollare a colpi di frusta I cieli ultramarini nei vortici infuocati; Io che tremavo udendo gemere a cinquanta leghe La foia dei Behemot e i densi Maelstrom, Filatore eterno delle immobilità azzurre, Io rimpiango l’Europa dagli antichi parapetti; Ho visto arcipelaghi siderali! e isole I cui cieli deliranti sono aperti al vogatore: – È in queste notti senza fondo che tu dormi e t’esili, Stuolo di uccelli d’oro, o futuro Vigore? Ma, davvero, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti, Ogni luna è atroce ed ogni sole amaro: L’acre amore mi ha gonfiato di torpori inebrianti. Oh che la mia chiglia esploda! Oh che io vada verso il mare! Se io desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera Nera e fredda in cui nel crepuscolo profumato Un bambino inginocchiato e colmo di tristezza, lascia Un battello leggero come una farfalla di maggio. Io non posso più, onde, bagnato dai vostri languori, Togliere la scia ai portatori di cotone, Né fendere l’orgoglio di bandiere e fiamme, Né nuotare sotto gli occhi orribili dei pontoni.
Forca nera, moncone amabile, Là i paladini ballano, ballano, I paladini scarni del diavolo, Scheletrici Saladini. Belzebù tira per la cravatta i neri Fantocci beffardi e li fa ballare, Ballare a colpi in fronte di ciabatta, Al suono d’un canto antico di Natale! All’urto s’intrecciano le braccia ossute: Canne d’organo nere, i petti forati Che un tempo strinsero oneste damigelle, A lungo si scontrano in immondi amori. Urrà! allegri ballerini, senza pancia! Saltate pure, la ribalta è lunga! Hop! non si sappia se è battaglia o danza! Belzebù fuor di sé raschia i violini! Calcagni duri, e mai sciupati i sandali! Quasi tutti han deposto la camicia di pelle: Il resto non dà noia, si vede senza scandalo. Sui crani la neve posa un cappello bianco: Il corvo è pennacchio a quei teschi incrinati, Spenzola un po’ di carne sul mento magro: Sembrano, in oscure mischie volteggianti, Eroi stecchiti, contro usberghi di cartone. Urrà! il vento sibila al ballo degli scheletri! La nera forca mugghia, come organo di ferro! I lupi rispondono da foreste violette: All’orizzonte il cielo è color rosso inferno… Orsù, scrollatemi quei fanfaroni funebri Che sgranano sornioni con le dita scrocchiate Un rosario d’amore sulle vertebre pallide: Non è un eremo questo, oh trapassati! Ed ecco, nel mezzo della danza macabra Uno scheletro folle balzare nel cielo, Cavallo focoso che ratto s’impenna: Sente ancora la corda tesa al collo, E arriccia i ditini sul femore che scricchiola, Mandando strida come se ghignasse, Poi, saltimbanco che torna alla baracca, Al canto dell’ossa rimbalza nel ballo. Forca nera, moncone amabile, Là i paladini ballano, ballano, I paladini scarni del diavolo, Scheletrici Saladini.
Neri di cisti, butterati, gli occhi cerchiati di verde, le dita gnoccolute rattrappite sul femore, il sincipite cosparso di repellenti bozzi; come le infiorescenze lebbrose dei muri vecchi, hanno innestato in amori epilettici la bizzarra ossatura agli scheletri neri delle sedie; i loro piedi s’allacciano a quei pioli rachitici, mattina e sera! Questi vecchi si son sempre intrecciati alle lor sedie sentendo i soli ardenti lucidargli la cute, o, con l’occhio fisso al vetro dove fondono le nevi, tremando col doloroso tremito del rospo. E le Sedie usano loro dei favori: patinata di bruno, la paglia cede ai lati delle reni; l’anima dei vecchi soli si riaccende, racchiusa in quelle trecce di spighe dove fermentava il grano. Ed i Seduti, coi denti alle ginocchia, verdi pianisti, tambulerrando colle dita sotto la sedia, si ascoltano sciabordare tristi barcarole e i loro testoni dondolano in un sentimentale abbandono. – Non li fate alzare, per carità! È una tragedia… Sorgono brontolando come gatti puniti, aprendo le scapole lentamente e con rabbia; i pantaloni sbuffano sui sederi rigonfi. E poi li sentite picchiare le teste calve sui muri scuri e strascicare i piedi, i loro bottoni sono delle pupille selvatiche che vi arpionano lo sguardo dal fondo dei corridoi! Inoltre hanno una mano invisibile che uccide: al ritorno il loro sguardo filtra il nero veleno che offusca l’occhio mesto della cagna bastonata, e voi sudate, stretti in un atroce imbuto. Si risiedono, con i polsi che navigano negli sporchi polsini, e pensano a chi li ha fatti alzare, e, da mattina a sera, grappoli di bargigli s’agitano da morire sotto i menti sparuti. Quando l’austero sonno abbassa le loro visiere, sognano, con la testa sul braccio, di fecondare sedie, veri amorini di seggiole neonate che circondino altere scrivanie. Fiori d’inchiostro, sputando pollini a virgola, li cullano, accoccolati sopra i calici come un volo di libellule sull’orlo dei giaggioli. – E il loro membro s’irrita con le spighe barbute
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