Tu la notte io il giorno così distanti e immutevoli nel tempo così vicini come due alberi posti uno di fronte all`altro a creare lo stesso giardino ma senza possibilità di toccarsi se non con i pensieri Tu la notte io il giorno tu con le tue stelle e la luna silenziosa io con le mie nuvole ed il sole abbagliante tu che conosci la brezza della sera ed io che rincorro il vento caldo fino a quando giunge il tramonto I rami divengono mani tiepide che si intrecciano appassionate le foglie sono sospiri nascosti le stelle diventano occhi di brace e le nuvole un lenzuolo che scopre la nudità La luna e il sole sono due amanti rapidi e fugaci e non siamo più io e te siamo noi fusi insieme nella completezza della luce fioca ondeggiante come la marea in eterna corsa… So cosa significa amore quando il giorno muore
a L. B. umida strada cielo d’ametista lacrime e lacrime sulle tue lunghe ciglia sulle mie lunghe dita ma la mia anima canora contro il vento come un drappo di seta a sbandierare frenetica di strappi per versare in uno squarcio la sua giovinezza ed inondarne te nuvola bionda impolverata dalla vita
Oh, tu bene mi pesi l’anima, poesia: tu sai se io manco e mi perdo, tu che allora ti neghi e taci. Poesia, mi confesso con te che sei la mia voce profonda: tu lo sai, tu lo sai che ho tradito, ho camminato sul prato d’oro che fu mio cuore, ho rotto l’erba, rovinata la terra – poesia – quella terra dove tu mi dicesti il più dolce di tutti i tuoi canti, dove un mattino per la prima volta vidi volar nel sereno l’allodola e con gli occhi cercai di salire – Poesia, poesia che rimani il mio profondo rimorso, oh aiutami tu a ritrovare il mio alto paese abbandonato – Poesia che ti doni soltanto a chi con occhi di pianto si cerca – oh rifammi tu degna di te, poesia che mi guardi.
Forse non è nemmeno vero quel che a volte ti senti urlare in cuore: che questa vita è, dentro il tuo essere, un nulla e che ciò che chiamavi la luce è un abbaglio, l’abbaglio supremo dei tuoi occhi malati – e che ciò che fingevi la meta è un sogno, il sogno infame della tua debolezza. Forse la vita è davvero quale la scopri nei giorni giovani: un soffio eterno che cerca di cielo in cielo chissà che altezza. Ma noi siamo come l’erba dei prati che sente sopra sé passare il vento e tutta canta nel vento e sempre vive nel vento, eppure non sa così crescere da fermare quel volo supremo né balzare su dalla terra per annegarsi in lui.
Aggiorna sulla luna e a noi persuade il sonno questa faccia distolta dal sole, la campagna profondata negli oceani. Per un varco di nubi ancor balena in poche stelle la vita lasciata: mentre sugli occhi piombano le ciglia e suda fresco umore sulla bocca dei cani muti.
Vorrei che la mia anima ti fosse leggera come le estreme foglie dei pioppi, che s’accendono di sole in cima ai tronchi fasciati di nebbia – Vorrei condurti con le mie parole per un deserto viale, segnato d’esili ombre – fino a una valle d’erboso silenzio, al lago – ove tinnisce per un fiato d’aria il canneto e le libellule si trastullano con l’acqua non profonda – Vorrei che la mia anima ti fosse leggera, che la mia poesia ti fosse un ponte, sottile e saldo, bianco – sulle oscure voragini della terra.
Chi mi parla non sa che io ho vissuto un’altra vita – come chi dica una fiaba o una parabola santa. Perchè tu eri la purità mia, tu cui un’onda bianca di tristezza cadeva sul volto se ti chiamavo con labbra impure, tu cui lacrime dolci correvano nel profondo degli occhi se guardavano in alto – e così ti parevo più bella. O velo tu – della mia giovinezza, mia veste chiara, verità svanita – o nodo lucente – di tutta una vita che fu sognata – forse – oh, per averti sognata, mia vita cara, benedico i giorni che restano – il ramo morto di tutti i giorni che restano, che servono per piangere te.
Che un giorno io avessi un riso di primavera – è certo; e non soltanto lo vedevi tu, lo specchiavi nella tua gioia: anch’io, senza vederlo, sentivo quel riso mio come un lume caldo sul volto. Poi fu la notte e mi toccò esser fuori nella bufera: il lume del mio riso morì. Mi trovò l’alba come una lampada spenta: stupirono le cose scoprendo in mezzo a loro il mio volto freddato. Mi vollero donare un volto nuovo. Come davanti a un quadro di chiesa che è stato mutato nessuna vecchia più vuole inginocchiarsi a pregare perché non ravvisa le care sembianze della Madonna e questa le pare quasi una donna perduta – così oggi il mio cuore davanti alla mia maschera sconosciuta.
Io non devo scordare che il cielo fu in me. Tu eri il cielo in me, che non parlavi mai del mio volto, ma solo quand’io parlavo di Dio mi toccavi la fronte con lievi dita e dicevi: – Sei più bella così, quando pensi le cose buone – Tu eri il cielo in me, che non mi amavi per la mia persona ma per quel seme di bene che dormiva in me. E se l’angoscia delle cose a un lungo pianto mi costringeva, tu con forti dita mi asciugavi le lacrime e dicevi: – Come potrai domani esser la mamma del nostro bimbo, se ora piangi così? – Tu eri il cielo in me, che non mi amavi per la mia vita ma per l’altra vita che poteva destarsi in me. Tu eri il cielo in me il gran sole che muta in foglie trasparenti le zolle e chi volle colpirti vide uscirsi di mano uccelli anzi che pietre – uccelli – e le loro piume scrivevano nel cielo vivo il tuo nome come nei miracoli antichi. Io non devo scordare che il cielo fu in me. E quando per le strade – avanti che sia sera – m’aggiro ancora voglio essere una finestra che cammina, aperta, col suo lembo di azzurro che la colma. Ancora voglio che s’oda a stormo battere il mio cuore in alto come un nido di campane. E che le cose oscure della terra non abbiano potere altro – su me, che quello di martelli lievi a scandIre sulla nudità cerula dell’anima solo il tuo nome.
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