for Nathan Zach Even these are lines of war written while it rages, not far away, not close by and we sit at an odd angle around a lamp-lit table as they deck the doorways with palms even this is a song unto God that He may lower His gaze upon us worms and trample on us loved and unloved ones alike. Not a truce – a gift for this lightning-struck land. * Sit in front of the window look, but accept desperation: there is truth in the moon that shines though it does not rise shield-like against pain it translates itself – as I have just translated from the open facing the wall – it simply links the desk to thought in a wait that burns, but does not explain and it torments every page in the air with fir tree music, hostile lights. ( traduzione in tedesco di Irmela Heimbächer) Winterresidenzen
Benedetta tu a distanza la più innocente tra le cose lontane nicchia di tavolo e mela una sfera un piano e contro l’alta fiamma del fuoco le due forme congiunte a scavare il nitore di un vano. Nulla in realtà ci chiama eppure ci accostiamo agli oggetti quasi fossero gli echi di una voce l’annuncio indifeso di altre vite. L’acqua nera, la sagoma del cane contro il molo. Nessuno può dirli ricordi e fischiare davvero come allora ma noi vediamo le tre stanze, lo scatto di chi ancora viveva e a un tratto gli armadi ci rimandano un fuoco errante la stella incerta di un viso. Nulla è compiuto nulla è ancora profondo. C’è solo il tonfo di una calce improvvisa e queste grida tra felci che sferzano le schiene grida che non capiamo come accade nel buio agli inseguiti. Alberi, corpi, folate contro i muri. Basta un gesto: il rovescio di un gomito che spegne una candela. Di colpo diventiamo ciò che aveva tremato.
Forse se moriamo è per questo? Perché l’aria liquida dei giorni scuota di colpo il tempo e gli dia spazio perché l’invisibile, il fuoco delle attese si spalanchi nell’aria e bruci quello che ci sembrava il nostro solo raccolto?
Non esiste innocenza in questa lingua ascolta come si spezzano i discorsi come anche qui sia guerra diversa guerra ma guerra – in un tempo assetato. Per questo scrivo con riluttanza con pochi sterpi di frase stretti a una lingua usuale quella di cui dispongo per chiamare laggiù perfino il buio che scuote le campane. *** C’è una finestra nella notte con due sagome scure addormentate brune come gli uccelli il cui corpo indietreggia contro il cielo. Scrivo con pazienza all’eternità non credo la lentezza mi viene dal silenzio e da una libertà – invisibile – che il Continente non conosce l’isola di un pensiero che mi spinge a restringere il tempo a dargli spazio inventando per quella lingua il suo deserto. La parola si spacca come legno come un legno crepita di lato per metà fuoco per metà abbandono.
III Prima di cena, prima che le lampade scaldino i letti e il fogliame degli alberi sia verde-buio e la notte deserta. Nel breve spazio del crepuscolo passano intere sconosciute stagioni; allora il cielo si carica di nubi, di correnti che sollevano ceppi e rovi. Contro i vetri della finestra batte l’ombra di una misteriosa bufera. L’acqua rovescia i cespugli, le bestie barcollano sulle foglie bagnate. L’ombra dei pini si abbatte sui pavimenti; l’acqua è gelata, di foresta: Il tempo sosta, dilegua. Di colpo, nella quiete solenne dei viali, nel vuoto delle fontane, nei padiglioni illuminati per tutta la notte, l’ospedale ha lo sfolgorio di una pietroburghese residenza invernale. Ci sarà un incubo peggiore socchiuso tra i fogli dei giorni non sbatterà nessuna porta e i chiodi piantati all’inizio della vita si piegheranno appena. Ci sarà un assassino disteso sul ballatoio il viso tra le lenzuola, l’arma posata di lato. Lentamente si schiuderà la cucina senza fragore di vetri infranti, nel silenzio del pomeriggio invernale. Non sarà l’amarezza, né il rancore, solo per un attimo le stoviglie si faranno immense di splendore marino. Allora occorrerà avvicinarsi, forse salire là dove il futuro si restringe alla mensola fitta di vasi all’aria rovesciata del cortile al volo senza slargo dell’oca, con la malinconia del pattinatore notturno che a un tratto conosce il verso del corpo e del ghiaccio voltarsi appena, andare Antonella Anedda (Roma, 1955), daResidenze invernali (Crocetti, 1992)
Non hai bara da trascinare sulla neve ma un cane che trema nel buio. Madre-lingua sei triste l’aglio si fa nero nel rame il rombo dal camino sale. I venti si confondono Eolo soffia e Babele vive. Figlia-lingua: scricchioli a ginepro. Il tuo brivido alla nascita è un frammento di tempesta tra i pianeti e le nuvole, le nuvole ciecamente corrono cancellando dai cieli ogni genealogia. Antonella Anedda (Roma, 1955), daDal balcone del corpo (Mondadori, 2008) – consigliato da Maria Borio
Lascia che il corpo rovesci ogni riparo e lo colmi dei corpi che abbandona unisci lentamente i giorni finché luce di luce non li arda sui bordi togliendo nomi alla terra. Scendono nella notte gli orti cittadini il vento inclina un cespuglio. Nessuno sa quando sarà chiamato, quale dettaglio – quale grigio di pietra o di stoviglia – lo stringerà nel buio quale parte di pena si staccherà per prima dondolando in avanti fino a cadere piano intorno al vuoto. Ora solo il vento davvero riconduce alla notte e gioghi annunciano altri gioghi dietro vetri, dietro nebbia inusuale in questo anno che addensa ed è appena l’inizio di una maturità più dura. Antonella Anedda(Roma, 1958) da Notti di pace occidentale (Donzelli, 2001)
È la lettera del librarsi e liberarsi, della lucidità davanti al dolore. È il liquido allontanarsi del linguaggio verso la lingua dei folli che ci slega. È la lettera letta lentamente dall’inizio alla fine. Antonella Anedda (Roma, 1955), da Il catalogo della gioia (Donzelli, 2003)
a Zbigniew Herbert E’ vero, l’allarme si alza dalle stelle l’argento non ha luce sul barbaro grido di terrore. L’imperatore ha spento il lume ha chiuso il libro. In basso la terra scuote l’orlo dei vasi e il ferro brucia freddo sui fili. Lui dorme nel quadrato dei secoli alti nel vento come aeree gabbie. Non sente il bronzo del trono sulla nuca né il rintocco dei chiodi sulle porte. Dormirà per sempre. Perciò sospendi tu la quiete prova a rovesciare il dorso della mano a raggiungermi nel nome di una lingua sconosciuta perché parlo da un’isola il cui latino ha tristezza di scimmia. Un mare una pianura, nuvole di tempesta contro i fiumi uccelli nel cui becco gli steli annunciano alfabeti. Forse solo così – Zbigniew può viaggiare il cesto dei libri sulle acque così credo giunga la voce la stretta del viso nell’orrore fino a un’orma fenicia, a un basso scudo privo – come il tuo – di luce. daNOTTI DI PACE OCCIDENTALE
a Mauro Martini Se ho scritto è per pensiero perché ero in pensiero per la vita per gli esseri felici stretti nell’ombra della sera per la sera che di colpo crollava sulle nuche. Scrivevo per la pietà del buio per ogni creatura che indietreggia con la schiena premuta a una ringhiera per l’attesa marina – senza grido – infinita. Scrivi, dico a me stessa e scrivo io per avanzare più sola nell’enigma perché gli occhi mi allarmano e mio è il silenzio dei passi, mia la luce deserta – da brughiera – sulla terra del viale. Scrivi perché nulla è difeso e la parola bosco trema più fragile del bosco, senza rami né uccelli perché solo il coraggio può scavare in alto la pazienza fino a togliere peso al peso nero del prato. Antonella Anedda (Roma, 1955), da Notte di pace occidentale (Donzelli, 1999) – consigliato da Azzurra D’Agostino
La piu grande biblioteca online di poesie in italiano