Nero e duro distacco che io sopporto al pari di te. Perche’ piangi? Dammi meglio la mano, prometti di ritornare in sogno. Noi siamo come due monti… non ci incontreremo piu’ a questo mondo. Se solo, quando giunge mezzanotte, mi mandassi un saluto con le stelle.
Non so se sei vivo o sei perduto per sempre, se posso ancora cercarti nel mondo o ti debbo piangere mestamente come morto nei pensieri della sera. Ti ho dato tutto: la quotidiana preghiera e l’illanguidente febbre dell’insonnia, lo stormo bianco dei miei versi e l’azzurro incendio degli occhi. Nessuno mi è stato più intimo di te, nessuno mi ha reso più triste, nemmeno chi mi ha tradita fino al tormento, nemmeno chi mi ha lusingata e poi dimenticata.
È larga e gialla la luce serale, mite il fresco d’aprile. Hai tardato molti anni, ma sono lieta di te. Siedi più a me vicino, guardami con gli occhi allegri: Ecco il quaderno azzurro dei miei versi infantili. Perdona se son vissuta affliggendomi, e il sole poco m’ha allietata. Perdona, perdona se molti ho scambiato per te.
Io ho appreso a vivere con semplicità, con saggezza, a guardare il cielo e a pregare Iddio, e a girellare a lungo innanzi sera, per stancare l’inutile angoscia. Quando nel dirupo frusciano le bardane e declina il grappolo del sorbo giallo-rosso, io compongo versi festevoli sulla vita caduca, caduca e bellissima. Ritorno. Mi lambisce il palmo il gatto piumoso che ronfa con piú tenerezza, e un fuoco smagliante divampa sulla torretta della segheria lacustre. Soltanto di rado squarcia il silenzio il grido d’una cicogna volata sul tetto. E se tu busserai alla mia porta, mi sembra che non udrò nemmeno.
Quando la notte attendo il suo arrivo, la vita sembra sia appesa a un filo. Che cosa sono onori, libertà, giovinezza di fronte all’ospite dolce col flauto nella mano? Ed ecco è entrata. Levato il velo, mi guarda attentamente. Le chiedo: “Dettasti a Dante tu le pagine dell’Inferno?” Risponde: “Io”.
La piuma urtò il tetto del calesse. Io lo guardai negli occhi. Il cuore si struggeva, non sapendo nemmeno la causa della pena. Sera senza vento, avvinta di tristezza sotto l’arco del cielo nuvoloso, il Bois de Boulogne pareva tracciato a china in un album antico. Aroma di benzina e di lillà, una guardiga quiete… Di nuovo egli toccò le mie ginocchia con la mano che quasi non tremava.
La porta è socchiusa, dolce respiro dei tigli… Sul tavolo, dimenticati, un frustino ed un guanto. Giallo cerchio del lume… Tendo l’orecchio ai fruscii. Perché sei andato via? Non comprendo… Luminoso e lieto domani sarà il mattino. Questa vita è stupenda, sii dunque saggio, cuore. Tu sei prostrato, batti più sordo, più a rilento… Sai, ho letto che le anime sono immortali.
Ed è caduta la parola di pietra Sul mio petto ancor vivo. Non è nulla, vi ero preparata, Ne verrò a capo in qualche modo. Ho molto da fare, oggi: Bisogna uccidere fino in fondo la memoria, Bisogna che l’anima si pietrifichi, Bisogna di nuovo imparare a vivere,
Lascio la casa bianca e il muto giardino. Deserta e luminosa mi sarà la vita. Nessuna donna saprà cullarti come io ti celebro nei miei versi: non scordare la tua cara amica nell’Eden che hai creato per i suoi occhi, per me che spaccio una merce rarissima e vendo il tuo tenerissimo amore.
Non ho chiuso le tendine, guarda dritto nella stanza. Perché non puoi fuggire oggi sono così allegra. Dimmi pure svergognata, scagliami i tuoi sarcasmi: sono stata la tua insonnia, la tua angoscia sono stata.