Ci fu un tempo in cui il tempo non era fluire: era una treccia di sabbia che si pettinava ininterrottamente. I suoi tre capi si intrecciavano, si fondevano tra loro ben distinti e inseparabili. Niente si posponeva. Niente si anteponeva: era un tempo predestinato da un singolare decreto, un’elica che, girando, si annullava in una ruota invisibile dentro il suo stesso bagliore. Non era un’età né una condizione, era il tempo senza tempo della felicità perfetta. Dell’accordo. Dell’immobile e sconfinata durata dell’estasi. Era il punto unico e misterioso in cui convergeva il tempo della memoria, della profezia e degli angeli.
Fiori, frammenti del tuo corpo; a me reclamo la sua linfa. Stringo tra le mie labbra la lacerante verga del gladiolo. Cucirei limoni al tuo torso, le sue durissime punte nelle mie dita come alti capezzoli di ragazza. La mia lingua già conosce le più morbide strie del tuo orecchio ed è una conchiglia. Essa sa del tuo latte adolescente, ed odora delle tue cosce. Nelle mie cosce contengo i petali bagnati dei fiori. Sono fiori frammenti del tuo corpo.
Nel giardino segreto, sotto l’albero, lentamente, molto lentamente, slegasti le mie trecce e dopo, impetuoso, perché io sentii freddo ed ostinata mi negavo, strappasti i miei vestiti. Con un cordiglio di lungo rampicante l’opaca organza che serviva da copriletto alla culla comune, esperto mi cingesti. Nella silenziosa ora, molto lontano dai genitori, con succo di gerani la bocca mi tingevi e braccialetti vegetali nelle mie esili caviglie si attorcigliarono. Ballai furiosamente. Quale alone dietro di me rigonfiò la tunica, intorno a te crescevano i cerchi dei miei segni. Io, diversa tanagra, evasivo alloro e tu quieto. Perfettamente quieto. salvo il braccio con cui mi flagellavi.
Divagare per il doppio corso delle tue gambe, percorrere l’ardente miele pulito, soffermarmi, e nel promiscuo bordo, dove l’enigma nasconde il suo portento, contenermi. Il dito esita, non si azzarda, la cosi fragile censura trapassando – aderito triangolo che l’elastico liscia – sapendo cosa lo aspetta. Comprovando, infine, il sesso degli angeli.
Scappiamo, fuggiamo verso i complici giorni dell’infanzia. Perdiamoci inermi nelle intense vertigini della pelle ancora incerta. Confusi, non trovando parole per tanto stupore, daremo alle cose nuovi nomi in una lingua segreta: come allora. Perdiamoci nel grande incubo della notte. Nei neri corridoi dell’orrore proseguiamo fino a che non ci colga -piegati sulle ginocchia- il fedele svenimento. Vieni. Guardiamo in ogni serratura che si apra a qualcosa di proibito, con rito solenne uccidiamo le farfalle di vetro, imbrattiamo la seta, strappiamo il tulle che vela le magnolie, e la disobbedienza sia nostro privilegio.
È vero, qualche volta cerco di ribellarmi, di privarmi e spogliarmi di te. E ti sogno, il vestito che scivola, afflosciandosi in terra le pieghe innumerevoli, e ti nego. Le tue foto abbandonano le angoliere intarsiate, il vetro delle cornici, e il tuo nome s’infrange, io dimentico che era maggio, le Pleiadi, il fiore somigliante al crisantemo. Non credo più che esista la quinta di Ciaicowski, però ricorro a te. Alla fine, ricorro sempre a te, al tuo silenzio schivo di fronte alla meraviglia, ai riccioli pazienti iridantisi al sole, quando stringevi papaveri e volevi essere santa, alla desolazione, opale torbido, e alla caparbietà di non mostrarlo mai. Volontà educata a conservare, affinché dal tuo volto non un cenno di te trasparisse, a non aprire il cuore su fogli silenziosi o sulla stoffa viola dei confessionali. A non versarlo in lacrime. Come ti controllavi per celare paure o sventure; il disastro e la colpa disdegnati, lo stupore nascosto. Bambina mia ferita e mai, mai dolce, facevi tesoro di maschere, metafore, ingenui simulacri di armatura o esorcismo e non mi immaginavi erede o alunna. Non so vivere, io, senza imitarti. appaghi in te, né ricordo che in fondo non parli di te, né esperienza che io non confronti con te, regina della cautela e dell’enigma. Però è tanto il riserbo che non so più il nome delle cose né di questo sentimento, dolce e impetuoso, forse doloroso e disperato, che mi ha sopraffatta. Nell’ignorarlo è la mia vanagloria, sono la mia prudenza e l’obbedienza. Bambina mia, mia tiranna, guardandoti io so che è tutto inutile e che ti rassomiglio, che per mia volontà resto in te, prigioniera. La mia memoria è carcere, tu il mio marchio mio orgoglio, io solo esecutrice delle tue volontà, bocca divulgatrice che segue i tuoi precetti, infanzia, patria mia, bambina mia, ricordo.
Ci fu un tempo in cui l´amore era un intruso temuto e atteso. Uno sfiorare clandestino, premeditato, rielaborato in insopportabili veglie. Una confessione audace e confusa, corretta mille volte, che mai sarebbe giunta al dovuto compimento. Un´incessante e tirannica inquietudine. Un galoppare repentino del cuore, ingovernabile. Un continuo lottare contro la spietata precisione degli specchi. Un´intima difficoltà nel distinguere l´angoscia dal piacere. Era un tempo adolescente e indefinito, il tempo dell´amore senza nome, quasi senza volto, che errava, come un bacio promesso, lungo il punto più ombroso della scala.
Ci fu un tempo, tempo dell´invenzione e dell´errore, in cui la solitudine era uno splendido e spaventoso esilio, in cui cospirare contro la lezione che non si voleva apprendere e spiare il mistero che si voleva estorcere. Era una grotta umida che imbrigliava la luce tra le felci, era l´angolo dei castighi dove le lacrime nascoste levavano, finalmente, la loro sovranità, era l´incubo che soffiava imprigionato in un´alcova sconosciuta, o un cuore ripiegato nel suo nascondiglio che tramava appuntamenti e vendette, ribellioni e segreti proibiti. Era il tempo dell´infanzia e la solitudine accendeva il suo bengala dietro lo scudo impenetrabile del silenzio. E il punto ombroso dove riparava era solo l´incantato rifugio al suo splendore irriducibile e glorioso.
Questo è l’enigma, l’ansia travolgente di conoscere, il desiderio irresistibile di gettare l’ancora in te, di possederti. Come sarebbe la perplessità di essere te, il mistero, la malattia di essere te e sapere Come sarebbe lo stupore di essere te, davvero te e con i tuoi occhi vedermi. Come sarebbe percepire che ti amo Come sarebbe, essendo te, sentirmelo dire E come sarebbe, allora, sentire quello che senti tu.
Quale alone dietro di me rigonfiò la tunica, intorno a te crescevano i cerchi dei miei segni. Io, diversa tanagra, evasivo alloro e tu quieto. Perfettamente quieto. salvo il braccio con cui mi flagellavi.
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