Parla piano per non farsi capire, dice le cose ma non vuole lasciarle intendere. A volte parla da sola per demolire un tragitto in macchina identico quasi a mille altri. A. è stata più volte ripresa: quel bofonchiare da rospa, lucente per poco, che nei tratti d’emozione è acuto e fastidioso, deve diventare fermo e scuro, pieno di quella chiarezza che a volte è più inutile di tutto. Alberto Cellotto(Treviso, 1978) da Pertiche (La vita felice, 2012)
C’è che quel che c’è sotto è nascosto, il mondo è istante o atomo di tempo. Non si può essere mai mare, non si può vedere la luna ma sulla soglia strofinerò le polveri delle conchiglie che furono molti volti. C’è quel che c’è e è acqua che è fluita nei tombini all’ombra del ramo, ha distrutto un’orma sulla pioggia lasciandoci pesci e insetti. Falsi indizi dava quel che cade. Una freccia una treccia sciolta a lato la feccia di vino che non si lava via. Sento raccontare ancora che miri ai piedi, in testa. Non farlo. Vieni. Non farlo. Diventa dente, resta come la spina al sicuro nel cuore del lupo e annienta il nodo. Senza me non andare nel viaggio fuori ai fiori a acqua e fango. Alberto Cellotto (Treviso, 1978), inedito.
I trattori qui hanno tutti più di trent’anni. I berretti schiacciati. C’è chi lavora a un cancello nuovo. La nebbia avvicina le macchie chiare del cavallo tra gli occhi, dentro la rete così improvviso. Mandano odori di olio perso e grasso, dietro carri con tutti i rami che ci stanno. A volte succede: cala e resta due giorni interi a inghiottire qualche vita nella paglia, gocciola dalle punte alte degli alberi e fa rumore sull’asfalto, sui sassi o sui calcinacci stesi a livellare una buca, lì dove gira questo primo tempo: già si infila e scende per la gola, si ricorda per nome per numero come un giorno quando finisce. Alberto Cellotto(Treviso, 1978), inedito
Tanto abbiamo imparato a sterzare col telefonino all’orecchio, già prima lo facevamo col giornale sul volante, e poi so vedere i cartoni vuoti delle pizze in pila da una finestra in ribalta, come ti aspettano all’inizio di una strada, lazzaretto di animali, e forse ti chiederò un favore: ricorda il secchio del sole, i buchi neri di briciole d’asfalto, anche gli stranieri in raccolta del radicchio coi cassoni, i sorrisi delle cinesi così lontani dai loro uomini seri quando fumano la cicca a mezzogiorno, fuori da una sartoria sempre aperta, ricorda questo quando dal fondo un siero di petrolio sale verso il celeste e i corpi starnazzano uguali ai capitelli e alle carcasse. Alberto Cellotto (Treviso, 1978), inedito
Se ascolto il sibilo a vuoto di un banco sega in un sabato pomeriggio qualsiasi va a finire che poi aspetto soltanto il taglio del tronco successivo, lo schizzo di segatura o che mi metto a girare col cardano. Posso anche pensare in dirittura che tutti noi ci perdiamo di vista così, come al mattino al banco affettati, quando si voltano di colpo e ti cercano cogli occhi un attimo invano dove sei finito per domandare –e dopo, e confermare il giusto peso con un dito. Alberto Cellotto (Treviso, 1978), inedito
Uguale al treno, quando tanti scendono e poi, soli, si sale. Al centro della vita restano i vestiti e le piante che precedono i pensieri. Si sostituiscono alle occasioni le belle strade. Resta l’obbligo di dare precedenza agli incroci tra i volti, sfollare la memoria Alberto Cellotto (Treviso, 1978), daPertiche(La Vita Felice, 2012)
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