Carlos Drummond de Andrade
Come quei primitivi che portano dovunque la
mascella inferiore dei propri morti
così ti porto con me, sera di maggio
quando, al rossore degli incendi che consumavano la terra
un’altra fiamma, non percepibile, tanto più devastatrice
sordamente arava sotto i miei lineamenti comici
e una ad una, disiecta membra, lasciava ancora palpitanti
e condannate, sul suolo ardente, porzione della mia anima
mai prima e mai più afferite alla sua nobiltà
senza frutto
Ma i primitivi implorano dalla reliquia saluta e pioggia
vendemmia, fine del nemico, non so quali portenti
– io a te non chiedo niente, sera di maggio
se non che continui, nel tempo e fuori da esso, irreversibile
segnale di sconfitta che si consuma al punto di
convertirsi in segnale di bellezza sul volto di qualcuno
che, precisamente, gira la testa e passa…
l’autunno è la stagione in cui avvengono tali crisi
e in maggio, tante volte, moriamo
Per rinascere, lo so, in una fittizia primavera
allora già spettrali sotto il vellutato della scorza
portando nell’ombra l’aderenza delle resine funebri
con cui ci unsero, e sulle vesti la polvere del carro
funebre, sera di maggio, in cui scomparimmo
senza che alcuno, amore incluso, ponesse rimedio
E chi lo visse, non saprebbe dire: se fosse un prestito
luttuoso, trascinato, polveroso, o una sfilata carnevalesca
– non ci fu testimone
Mai ci sono testimoni. Ma disattenti. Curiosi, molti
Chi riconosce il dramma, quando si precipita, senza maschera?
Se muoio d’amore, tutti lo ignorano
e negano. Lo stesso amore si disconosce e maltratta
Lo stesso amore si nasconde, come una bestia cacciata;
non è certo d’essere amore, da tanto lavato ha la memoria
dalle impurità di fango e foglia in cui riposava. E resta,
perduta nell’aria, perché meglio si conservi
una particolare tristezza, che imprime il suo sigillo sulle nubi
Cura e traduzione di Massimiliano Damaggio