Si arriva ad un’altra riva. La fatica è poca. Nessuna divinità ci è stata avversa. O almeno così credo. Di ciclopi, non se n’è visti. Di cariddi, neppure l’ombra. Una fascetta sì, l’abbiamo ricevuta al check-in, ma non nel bel mezzo di una tempesta e soprattutto non da uno smergo. Insomma, il parallelo con l’Odissea non regge. Uno poi s’immagina l’isola dei Feaci con alte scogliere insormontabili… qui c’è un lucido pavimento grigio innocuo, facilmente percorribile, interminabili tapis roulant. Segnali divini del tutto assenti. L’unica indicazione taciuta è che ogni cosa anonima di questi lunghi corridoi ti spinge all’uscita ti dice che non puoi non essere troppo a lungo. Tutti abbiamo una gran fretta d’arrivare per primi alle dogane. Una gran fretta d’identificarci di avere direzioni da prendere. Nessuno dirà Nessuno, nasconderà il proprio nome dopo le avversità e i dolori. Ecco il passaporto. Sono io quello. Le porte si aprono. C’è una gran nebbia sulla riva di corvi e brina. Già non si vede dove si va, già è l’ora d’accendere le lanterne.
La mia siepe è la tamerice. Un arbusto che non sa pronunciarsi. Insicuro nel suo erigersi sbilenco. Il progettatore avrà pensato che non valeva la pena di star lì a prendere misure, a far troppi calcoli. La bellezza toccherà altrove, si sarà detto. E così, eccole le mie tamerici: lungo i pratini d’Antignano la terra termina col loro vapore verdastro; siepi che non escludono sguardi. Ogni uomo che ci passerà accanto saprà fingersi lontano e straniero, riconoscerà dopo di loro la malinconia del mare e penserà che anche stando fermi è sempre ora di naufragare.
La terra umida e secca. Non è casa. I filari d’aceri. I salici. I pochi cipressi. I ruderi. I canali verdi. Il cielo che si cala su un orizzonte di trattori, fienili, e ombre curve. Gli occhi di lucciola, le zolle ferite dall’unghia. I canti sperduti delle bocche di grano al rincasare dalle fatiche. La cantilena del grillo che addormenta come un acufene pulsante ogni sera – ogni notte – e apre a nuovi campi, a nuove vite, ai sogni delle spighe. Non sono, tutte queste cose, la mia casa. E anche queste parole pesanti, divelte da un vomere che sbatte sulla pietra… non credo mi appartengano. Ci sono storie comuni, architetture affini, lingue simili, ma ho capito che sei più solo nelle somiglianze. Quando intravedi una casa e il balzo ballerino d’un pino marittimo nel bianco suono del vento e credi di rincasare nel tuo solito azzurro di nuotanti e granchi e sei invece lontano, disperso nel tempo scandito dalle cicale e dalle zappe.
La strada dritta che percorrevo dal Trinity a Ranelagh. Le mani in tasca nel gelo picchiatore d’occhi. Il mio riflesso sul vetro del tram. A ripensarci ora – che fa molta nebbia – sembra una via facile senza selve oscure o smarrimenti, una dolcezza che si dipana dentro un passato di mattoni rossi, d’una città di forestieri e gabbiani. Ma io so che anche allora c’erano tristezze. Strano. Strano che del tempo rimangano solo i compendi i riassunti, le epitomi. Strano che i posti rimangano posti anche quando non ci siamo. Strano che altri percorrano quella via in cui manco. È forse una forma di gelosia la malinconia?
Il navigatore mi indica questa nuova via tra i paesi del Veneto. Fedele alleato della mia perdizione. Carpenedo, Favaro, Meolo fino al Piave – che non fa più guerra. Penso a Londra. Poi a Dublino. Mi chiedo quali stampe stiano esponendo alla Ulysses vicino Grafton Street – ricordo d’averne viste un paio l’inverno scorso. Mi piacevano, ma alla fine non avevo gli schei per comprarle. C’era già un buio pesto alle diciassette e avevo le mani calde di caffè. Dovevo affrettarmi a tornare a casa, superare tutti quei volti d’acqua. Lei mi aspettava per cena, con l’uruguayano e l’egiziano. Alla radio parlano di Nizza, d’un colpo di stato fallito in Turchia. Tra un paese e l’altro, c’è un’alba dorata di campi, un’estate elusiva fino alle Dolomiti azzurre. Semaforo rosso. Il paese è anonimo. Guardo il piede consunto e giallo d’un uomo davanti alla sua bottega; i ragazzi sereni alla fermata del tram; sui balconi i vecchi seduti in canotta. Penso di non essere mai stato così straniero alla vita.
Livorno è così intima e musicale a settembre. Non posso resisterle. Non posso resistere alle ingenuità alle voci naives. Mi dico, non è poesia questo abbraccio al concludersi dell’estate ai Pancaldi, al limite ultimo della terra, dove si inginocchiano promontori e il vento torna disturbatore di forme. I bagnini incappucciati chiudono le cabine verdi, sigillano un grigio inquieto di mare tappano con i teli scoloriti gli scogli, i granchi, i pescatori. Non è poesia dirsi qualcosa di tenero dover sparire anche noi, ripartire sgombrare questo poco di spazio occupato. Ancora una volta doversi arrendere al tempo coi nostri sbuffi e le mani in tasca come sommozzatori d’aria.
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