Ogni parola che, io e te, abbiamo piantato è cresciuta con così grande lentezza: ciascuna un seme riposto profondo, nel terriccio della tua mente. In silenzio, abbiamo atteso, nel susseguirsi delle stagioni, e nel frattempo appreso che le mani sanno parlare; finché, alla fine, germogli di suoni acerbi s’estendono dalle radici fino all’ancia della tua gola, le foglie s’aprono, i girasoli traboccano dalle tue labbra: semi scuri intrecciati d’oro per noi da piantare, ancora e ancora parole dorate per noi da coltivare.
Io sono la Esperance, navigo sulla vostra scia, le vele spiegate, nel ventre la speranza, mentre voi affluite nel Glasgow Green – siamo il vostro coro, io e le mie sorelle, vostra creazione, una flotta di fiducia, di ritorno al Clyde dai sette mari: la veterana Hikitia, gru galleggiante, unica al mondo nel suo genere, è di nuovo a casa da Wellington; e la Empire Nan, il nostro tozzo rimorchiatore, la Delta Queen – la sua grande ruota sciaborda a poppa la schiuma mentre avanza tra gli sbuffi sul Mississippi; e l’audace Akasha, carica di memorie dal Nilo; scintilliamo per voi, con le sartie cigolanti e i fumaioli roboanti al vostro grido: ‘Diritto Al Lavoro, No alla Chiusura dei Cantieri, Non Resta A Casa Nessuno’, i vostri vessilli e striscioni come onde dinanzi a noi, ci sospingono a casa in una grande marea, qui c’è la Umoja, il suo nome riassume il nostro intento odierno – unità – un luccichio a prua; la Moonstone e la Seva, nessuna come loro sa tutto sui recuperi – e lì c’è Uhuru, il cui nome sta per libertà, Uhuru, Uhuru, mia sorella Uhuru, naviga con me sulla vostra scia, le mie vele spiegate, un carico di speranza, mentre voi vi riversate nel Glasgow Green, onda dopo onda.
Eccomi qua, sotto la cintura di Orione a dimenare la testa, al galoppo tra la polvere infuocata della mia costellazione; per millenni ho cavalcato onde stellari, nell’ignoto, finché una donna dagli occhi come stelle ardenti posa lo sguardo, m’imbriglia, misura, cataloga e doma. M’inorgoglisco, poiché a strigliarmi con tanta deliziosa cura è qualcuno capace in tutto – una domestica, era lei, all’acquaio, nella cucina del professore, finché lui s’accorse della sua mite dote di scorgere la luce, con una precisione che di molto superava i suoi uomini di Harvard; e poi, s’intromettono gli uomini. Mi reclamano come loro scoperta, e mi chiamano: “Cupo Mietitore”, “Cavallo Nero degli scacchi”, dicono, ma neppure notano che sono una giumenta. Mi vien voglia di saltar giù da questa piastra fotografica, lasciandola per miracolo vuota, per portarla con me, la mia signora delle stelle, che per prima mi avvistò – insieme gareggeremmo nel cielo, galoppando negli anni luce, gettandoci senza sella, tra i scintillanti raggi di Zeta, lungo tutta la cintura del Cacciatore, da Mintaka fino ad Alnitak.
Sono un’ombra, solo un mormorio, ora, in cori sparsi di lingue, pur se ancora la luce del sole infrange le onde nell’arco del mio castello in frantumi, come i coltelli che io insegnavo a Cu Chulainn a scagliare; oltre la baia, s’ergono ancora i Cuillin, là dove un tempo il sole vibrò una lancia; rupi scure ch’artigliano il cielo di gabbro lacero; a Tokavaig, i boschi di nocciolo bisbigliano ancora la saggezza che qui radunavo e impartivo ai miei guerrieri inesperti. Ma da tempo la mia arte è perduta: la via della pazienza, che tiene l’ira in equilibrio su un filo d’erba, al vento della piana, a stemperare, finché si colga lo sfacelo ch’avrebbe inflitto; quante volte invano ammonivo Cu Chulainn che la sua furia avrebbe ammazzato suo figlio: “Quella tua indole”, gli dicevo, “per molte lune farà terra bruciata, là dove la pace avrebbe forse prevalso. “Stana prima le tue paure”, dicevo. “Senti il calore del respiro sulla corda dell’arco mentre scocchi il dardo, poi, trattienilo, e attendi, prima di colpire al cuore ciò che non serve uccidere”.
La piu grande biblioteca online di poesie in italiano