Nei suoi sogni la luna è più pigra, stasera: come una bella donna su guanciali profondi, che carezzi con mano disattenta e leggera prima d’addormentarsi i suoi seni rotondi, lei su un serico dorso di molli aeree nevi moribonda s’estenua in perduti languori, con gli occhi seguitando la apparizioni lievi che sbocciano nel cielo come candidi fiori. Quando a volte dai torpidi suoi ozi una segreta lacrima sfugge e cade sulla terra, un poeta nottambulo raccatta con mistico fervore nel cavo della mano quella pallida lacrima iridescente come scheggia d’opale. e, per sottrarla al sole, se la nasconde in cuore.
Pluvioso, irritato contro l’intera città, versa dalla sua urna a grandi zaffate un freddo tenebroso sui pallidi abitanti dei vicino camposanto, rovesciando, sui quartieri brumosi, la morte. Il mio gatto, alla cerca d’un giaciglio sul pavimento agita incessantemente il suo corpo magro e rognoso; l’anima d’un vecchio poeta erra nella grondaia con la voce triste d’un fantasma infreddolito. La campana che si lagna e il tizzo che fa fumo accompagnano in falsetto la pentola raffreddata; intanto in un mazzo di carte dall’odore nauseante, lascito fatale d’una vecchia idropica il bel fante di cuori e la regina di picche chiacchierano sinistramente dei loro amori defunti.
Quando passa con vesti ondose e iridescenti, a una grazia di danza informa ogni movenza, quasi, in cima a un bastone, quei sinuosi serpenti che i giocolieri sacri agitano in cadenza. Come la sabbia e il cielo dei deserti roventi, sordi entrambi a ogni voce d’umana sofferenza, come il giuoco dell’onda nel viluppo dei venti, ella si stende e snoda con piena indifferenza. I suoi limpidi occhi sono pietre stupende, e nella sua natura allegorica e strana, dove l’antica sfinge un cherubo asseconda, fra l’acciaio e i diamanti, l’oro e la luce, splende d’un eterno splendore, come una stella vana, la fredda maestà della donna infeconda.
Sotto una luce bigia, senza posa, senza ragione, si contorce e incalza danzando, spudorata e rumorosa, la Vita: così, poi, quando s’innalza voluttuosa la notte all’orizzonte, e tutto, anche le fami, in sé racqueta, tutto annuvola e spegne, anche le onte, “Eccoti, alfine!” mormora il poeta. “Pace ti chiede il mio spirito ed ogni mia fibra, pace, e null’altro elisire; ricolmo il cuore di funebri sogni, vo’ stendere le mie membra supine nella frescura delle tue cortine e quivi sempre, o tenebra, dormire!”
Uomo libero, sempre tu amerai il mare! Il mare è il tuo specchio: contempli l’anima tua nell’infinito srotolarsi della tua onda, e il tuo spirito è un abisso non meno amaro. Ti diletti a tuffarti nel seno della tua immagine; l’abbracci con gli occhi e con le braccia, e il tuo cuore si distrae talvolta dal proprio battito al fragor di quel lamento indomabile e selvaggio. Entrambi siete tenebrosi e discreti: uomo, nessuno ha sondato il fondo dei tuoi abissi; mare, nessuno conosce le tue intime ricchezze: tanto gelosamente serbate i vostri segreti ! E tuttavia da secoli innumerevoli vi fate guerra senza pietà nè rimorsi, tanto amate la strage e la morte, o lottatori eterni, o fratelli inseparabili!
Sovente, per diletto, i marinai catturano degli albatri, grandi uccelli marini che seguono, indolenti compagni di viaggio, il bastimento scivolante sopra gli abissi amari. Appena li hanno deposti sulle tavole, questi re dell’azzurro, goffi e vergognosi, miseramente trascinano ai loro fianchi le grandi, candide ali, quasi fossero remi. Come è intrigato e incapace, questo viaggiatore alato! Lui, poco addietro così bello, com’è brutto e ridicolo! Qualcuno irrita il suo becco con una pipa mentre un altro, zoppicando, mima l’infermo che prima volava! E il poeta, che è avvezzo alle tempeste e ride dell’arciere, assomiglia in tutto al principe delle nubi: esiliato in terra, fra gli scherni, non puo’ per le sue ali di gigante avanzare di un passo.
Vieni dal ciel profondo o l’abisso t’esprime, Bellezza? Dal tuo sguardo infernale e divino piovono senza scelta il beneficio e il crimine, e in questo ti si può apparentare al vino. Hai dentro gli occhi l’alba e l’occaso, ed esali profumi come a sera un nembo repentino; sono un filtro i tuoi baci, e la tua bocca è un calice che disanima il prode e rincuora il bambino. Sorgi dal nero baratro o discendi dagli astri? Segue il Destino, docile come un cane, i tuoi panni; tu semini a casaccio le fortune e i disastri; e governi su tutto, e di nulla t’affanni. Bellezza, tu cammini sui morti che deridi; leggiadro fra i tuoi vezzi spicca l’Orrore, mentre, pendulo fra i più cari ciondoli, l’Omicidio ti ballonzola allegro sull’orgoglioso ventre. Torcia, vola al tuo lume la falena accecata, crepita, arde e loda il fuoco onde soccombe! Quando si china e spasima l’amante sull’amata, pare un morente che carezzi la sua tomba. Venga tu dall’inferno o dal cielo, che importa, Bellezza, mostro immane, mostro candido e fosco, se il tuo piede, il tuo sguardo, il tuo riso la porta m’aprono a un Infinito che amo e non conosco? Arcangelo o Sirena, da Satana o da Dio, che importa, se tu, o fata dagli occhi di velluto, luce, profumo, musica, unico bene mio, rendi più dolce il mondo, meno triste il minuto?
Oh, quanto è bello il sole che sorge allegro e forte e il suo buondì ci lancia come uno scoppio rosso! felice che ne può con animo commosso salutare, gloriosa più d’un sogno, la morte! Ricordo!… Ho visto tutto, la fonte, il solco, il fiore, anelar come vivido cuore sotto i suoi sguardi. – Corriamo all’orizzonte, presto, corriamo, è tardi, che non ci sfugga almeno l’ultimo obliquo ardore! Ma io rincorro invano il Dio che s’allontana; stende l’ineluttabile Notte su noi, sovrana, le abbrividenti ali, funeste, umide, opache. Un lezzo di sepolcro nelle tenebre vagola, e il mio timido piede ai margini del brago schiaccia rospi imprevisti e lubriche lumache.
Madre delle memorie, amante delle amanti, fonte d’ogni mia gioia e d’ogni mio dovere, ricorderai le tenere nostre ebbrezze, davanti al fuoco, e l’incantesimo di quelle lunghe sere, madre delle memorie, amante delle amanti! Le sere accanto al palpito luminoso dei ceppi, le sere sul balcone, velate d’ombre rosee…. Buono il tuo cuore, e dolce m’era il tuo seno: oh, seppi dirti, e sapesti dirmi, inobliabili cose, le sere accanto al palpito luminoso dei ceppi. Come son belli i soli nelle calde serate, quanta luce nel cielo, che ali dentro il cuore! Chino su te sentivo, o amata fra le amate, alitar del tuo sangue il recondito odore….. Come son belli i soli nelle calde serate! Un muro era la notte, invisibile e pieno. Io pur sapevo al buio le tue pupille scernere, e bevevo il tuo fiato, dolcissimo veleno, e i piedi t’assopivo, entro mani fraterne. Un muro era la notte, invisibile e pieno. Io so come evocare i minuti felici, e rivivo il passato, rannicchiato ai tuoi piedi: è infatti nel tuo mite cuore e nei sensi amici tutta chiusa la languida bellezza che possiedi. Io so come evocare i minuti felici… O promesse, o profumi, o baci senza fine, riemergerete mai dai vostri avari abissi, come dal mare, giovani e stillanti, al confine celeste i soli tornano dopo la lunga eclissi? – O promesse, o profumi, o baci senza fine!
Non scrissi, o lettore innocente, pacifico e buon cittadino, per te questo mio saturnino volume, carnale e dolente. Se ancora non hai del sapiente Don Satana appreso il latino, non farti dal mio sibillino delirio turbare la mente! Ma leggimi e sappimi amare, se osi nel gorgo profondo discendere senza tremare. O triste fratello errabondo che cerchi il tuo cielo diletto, compiangimi, o sii maledetto!
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