Avara pena, tarda il tuo dono in questa mia ora di sospirati abbandoni. Un òboe gelido risillaba gioia di foglie perenni, non mie, e smemora; in me si fa sera: l’acqua tramonta sulle mie mani erbose. Ali oscillano in fioco cielo, labili: il cuore trasmigra ed io son gerbido, e i giorni una maceria.
Il girasole piega a occidente e già precipita il giorno nel suo occhio in rovina e l’aria dell’estate s’addensa e già curva le foglie e il fumo dei cantieri. S’allontana con scorrere secco di nubi e stridere di fulmini quest’ultimo gioco del cielo. Ancora, e da anni, cara, ci ferma il mutarsi degli alberi stretti dentro la cerchia dei Navigli. Ma è sempre il nostro giorno e sempre quel sole che se ne va con il filo del suo raggio affettuoso. Non ho più ricordi, non voglio ricordare; la memoria risale dalla morte, la vita è senza fine. Ogni giorno è nostro. Uno si fermerà per sempre, e tu con me, quando ci sembri tardi. Qui sull’argine del canale, i piedi in altalena, come di fanciulli, guardiamo l’acqua, i primi rami dentro il suo colore verde che s’oscura. E l’uomo che in silenzio s’avvicina non nasconde un coltello fra le mani, ma un fiore di geranio.
Finita è la notte e la luna si scioglie lenta nel sereno, tramonta nei canali. È così vivo settembre in questa terra di pianura, i prati sono verdi come nelle valli del sud a primavera. Ho lasciato i compagni, ho nascosto il cuore dentro le vecchi mura, per restare solo a ricordarti. Come sei più lontana della luna, ora che sale il giorno e sulle pietre bette il piede dei cavalli!
Già da più notti s’ode ancora il mare, lieve, su e giù, lungo le sabbie lisce. Eco d’una voce chiusa nella mente che risale dal tempo; ed anche questo lamento assiduo di gabbiani: forse d’uccelli delle torri, che l’aprile sospinge verso la pianura. Già m’eri vicina tu con quella voce; ed io vorrei che pure a te venisse, ora, di me un’eco di memoria, come quel buio murmure di mare.
Ed ecco sul tronco si rompono gemme: un verde più nuovo dell’erba che il cuore riposa: il tronco pareva già morto, piegato sul botro. e tutto mi sa di miracolo; e sono quell’acqua di nube che oggi rispecchia nei fossi più azzurro il suo pezzo di cielo, quel verde che spacca la scorza che pure stanotte non c’era.
Sentieri velati da un tratto di eterno: basole fra scorci di storica passione; a passi tardi rinvengo in cor mio nascituro sguardo che soave m’attrista
Sei ancora quello della pietra e della fionda; uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte, -t’ho visto- dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta. E questo sangue odora come nel giorno quando il fratello disse all’altro fratello: “;Andiamo ai campi!”. E quell’eco fredda, tenace è giunta fino a te, dentro la tua giornata. Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue salite dalla terra, dimenticate i padri: le loro tombe affondano nella cenere, gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
Filtra l’ora e lo spazio e non ha luce presagio nell’abbandono dell’erbe; e il vento, il fresco vento non versa telai di suoni e chiarità improvvise, e quando tace anche il cielo è solo.