XVIII. nella società dei fratelli

Roberta Bertozzi

Roberta Bertozzi

Ho compreso – ti ho
(è lo stare come il cecchino
sul grilletto – immobile nell’alveo di Morfina
mentre correvano tutti
al loro destino di bersaglio.
E se fosse un imbuto, il viadotto
che all’uscita rilascia masticato il tempo
e come un cane io seguissi le tracce:
quello che perde ciascuno fra le pagine del libro
aggiunge) – allora tu:
inietta – provoca qui
appena la punta d’ago da cui attendo
la cura
oppure concedimi il nervo – per volta almeno
lo stadio dove non c’è scampo
con stampelle – mio sembiante – al duello
posizionami.
«Cancella quello che non si deve dire,
prima però rileggi…» (rifai il corpo
alla statua del dovere, rialzi il capo):

Il nostro viaggio è nel fascicolo
della pietra, nella custodia della luce
dove il tempo viene meno
mentre è continuo
sfogliare durezze alla selce
ogni venatura esaminando
perché nulla vada trascurato,
padre.

Nel quaderno si spegne il gesto,
nell’album del male fanno le circostanze, ovunque
parole composte in batterie d’enunciato
si armano – in sigle si arrestano.

Hanno detto è tempo di spremitura, di rimagliare
l’archivio, di stare all’asciutto – tempo
di fare un figlio voi, un altro precipizio della carne;
in ritiro dai vostri polsi venire
al compromesso,
cambieremo i nostri discorsi, vi piegherete…
come ogni Volksgenossen, vedrete sarà
bello…
Ma ogni cosa storna e
non-è-più-tempo e si resta così
di traverso,


come s’allunga l’orizzonte, come si rasserena
di luminarie, di torce elettriche a mazzi
come s’insera
sento un crepitio di fascette d’alloro
e di passi, di passi lo scalpitare
che pestano e s’ingrossano
come di cosa decisa, sulla pubblica, addominale
piazza s’impulsano, i passi incalzano a turni e più
come stantuffano ora i ventricoli del mio cuore
sento
che s’è deciso ma non è esplicito
non riesce a fluire:
«Ci siamo quasi… sei pronto?»
«Se avessi il copione forse sì, ma così, adesso…»
«Forse basta fischiare, un richiamo…»
«… non sono sicuro che sia questo…»
«Appoggiati a me…»
L’acqua è il nostro specchio. Nella società dei fratelli
è la paura a fare carità. A fare tutto stretto in coro all’altro
nella spaventata fratellanza, nel rimedio,
padre:
io sono dell’ulivo,
raddoppio
e le radici si inarcano al fusto
e storpio.
Oh tu – abbi pietà.


«Sei pronto?»
Qui occorre spaccare, occorre
mancarla del tutto
la realtà.
(da Gli enervati di Jumièges, postfazione di Pasquale Di Palmo, peQuod, Ancona 2007)

IX. la notte

Roberta Bertozzi

Roberta Bertozzi

È notte lirica, altissima.
Tutti i bravi borghesi di Baviera
hanno la mano placida sul membro.
Qualcosa ancora in stato di panico
ulcera la frontiera con le pinze, con
un piccolo coltello a serramanico.
Tutti i bravi borghesi di Baviera
hanno avuto il loro pane quotidiano
e il loro sangue si fa svelto – viola.
È notte lirica, danubiana.
E se il pazzo grida nel reparto è solo
per continuare il suo cantiere –
dare fiato al cadavere
del caro estinto Novecento.
È notte di grazia,
e la pastina è nel piatto del bambino
le labbra serrate della gente in pace
mentre una nuvola di borotalco
sbuffa dall’inceneritore
sottovoce.
È notte, ma torna
quel brusio, quella sgualcitura del silenzio,
la fiumana che si trascina la rotativa
nel respiro, nei muscoli che bruciano,
nel tubo di condotta che incula
un altro tubo,
quel bisogno di continuare a fabbricare – addizionare
adrenalina al laccio.
È notte ed è notte anche sui tuoi polsi,
sul tuo rimbalzo cardiovascolare
e io col compasso ti traccio la vena e coll’unghia
ti sottraggo – dai a me. E ancora. Ancora spinge
la mia pietà sulla vena
a farti più paralisi.
È notte alta, potentissima
e il mondiale infaticabile arsenale
mugola attraverso la parete carta-velina,
viene a rima.

“come un’ora del bisturi
Bambino, e questa lama è benefica”
ahi questa – lama che ti benedice
mentre ringhia notte sulle schiene flesse.
Pensi: se non spargeremo calce sul passato
i muri continueranno a sudare
la secrezione urticante dei lamenti
e l’odore dei forni
irreparabile
l’odore.
La rovina è inscritta di retro alle palpebre,
nella tenda oscurante delle palpebre
stampata la forma della carneficina

(sentinella serale io solo che lento provo
premendo bocca alla tua, io che adagio ti apro nel ventre)
mentre fa di tutto per piovere quest’acido
questa allegra amnesia
sui sopravvissuti, i – nati dopo.
Per cancellare ogni notte brancolando
l’amore digrigna contro gli spettri
il suo disgraziato caritare
come un cane.


«Togliti, lasciami stare…»
Sui fianchi addensa la via lattea dei tralicci.
Spanciare nel mezzo e non stringere il vento.
La luce che si spalma come colla,
un narcotico. La garza della luce.
Dalle rive, nelle stanze-contrafforti
hanno i corpi sgretolati di abbandono,
le teste a pioggia.
«Domani proseguiamo sulla stessa rotta
manca poco ormai…»
«Poco…»
«Pochissimo, credimi.»
«E dopo cosa facciamo?»
«Niente, dopo siamo arrivati.»
E il gas prenderà la giusta direzione.
(da Gli enervati di Jumièges, postfazione di Pasquale Di Palmo, peQuod, Ancona 2007)

I. in utero

Roberta Bertozzi

Roberta Bertozzi

«Se ti fermi devi ricominciare
dall’inizio… dai qua!»
Escoriazione – procurarsi da soli
sbrigativo per evitare arrivi
qualcosa di peggiore – forato buio popolato
di animelle cervicali
battere sul tempo e più boccettina adesso
e nicotina abboccare
per disinfettare l’orlo, per tirarlo a combacio
«mi sembra che oggi va meglio…»
poi ricominciamo – le scalfitture,
la pelle sottopelle più abrasiva
e spremere adagio dalla
l’umore spento, scuotere prima di ogni uso lisciarsi
colla lucida urina
e lento sbiancare in nuova, siberiana
sacca d’utero.

Per la safety first – assumere
i precetti per cui opera
la salubrificazione – mia, tua.
Metti il tampone, inghiotti
(la tua lingua fuoriuscire per altre dentellature vedo)
poi ad anni alterni il corpo fare duro di abbandono
e attendere pazienti, «sta fermo ti ho detto…
così…»
per la somministrazione del perdono.

L’alba, la stanza ossigenata
(cerchi un punto d’appoggio per lo sguardo
ti abbracci all’edificio); quando al blocco il contatore
ci rinumera nelle file
e il soprannumerario inciampa per la rampa
delle scale – non volendo
cosa gli va negli occhi, cosa gli fa – corpuscolo.
Poi solo lo scorrere – sostenerlo sul binario
come lievito.
Quieto panico nelle compagnie civili.
Le acque che le bagneranno
alla turnazione. Gli operosi allungano la bocca
alla dispensatrice madre ovaiola
perché essa provvede per tutti, tutti
slatta.
«Quando sognavo facevo quello che mi pare… ero
bello e fortissimo…
poi me ne sono accorto e ho avuto come paura…»
(allunghi una gamba o tenti
di scalciarla al fondo, mezzafuori).

Se al deposito precipitano fiacchi
sulla panca del lavoro, noi ne – sentiamo solo
il tonfo-morto di schianto
giù dalle scrivanie
all’assolo del marciapiede
dove qualcuno piange senza audio
e io sì, avrei dovuto
lasciare l’elemosina, un vulnerabile
sempre bisogna che qualcosa
dare che sublima la perfezione, al saldo
di una qualunque vetrina di sofferenza, quando lo sguardo
cade.
Dunque di nuovo al principio, all’innesto,
se ti fermi devi ricominciare
la tua creatura – di nuovo piegati verso
di me, di dentro noi, e più crescevamo e non
per il cappio della costola…

Sei un figlio di nuovo ficcato
nella nutrizione – il re del rock and roll
e riprendi a ovulare arrossato
dalle scosse dell’amore
un figlio, due, appesi al chiodo
trapassato della foto, da dove scappano
nella frizione generosa degli inizi e sei
chi lo svertebra questo dio minore
questo
per altra giustizia sommaria – immagino
rimettere nella cellula il suo generativo
sangue sillabico e altro nuovo
sangue e ancora procurarsi
scorte.
(da Gli enervati di Jumièges, postfazione di Pasquale Di Palmo, peQuod, Ancona 2007)

da BLUMEN, primo studio

Roberta Bertozzi

Roberta Bertozzi

Tu sai che all’ora stabilita, quando
il sipario sarà totale,
accadrà,
o farà in modo
che raccontato tutto sia accaduto.
Che il silenzio fosse
questo punto metallico
le mani – ferme, sul piano del tavolo,
così, e così gravemente
se nella torsione di giugno
ogni cosa preme sul suo asse
per farsi spazio, per venire
alla presenza,
ovunque.
Non puoi sbagliarti, è adesso, e vedi
l’oblio della casa,
vedi quale misterioso potere
s’impadronisce degli uomini, del verde e del metallo,
senza che siano consapevoli del modo in cui avviene:
il suo braccio che respinge e avvicina,
di continuo ed è
normale che sia difficile all’inizio, disse
e anch’io ne sentivo il freno,
per catene di immagini, pagine,
fortificazioni,
il catalogo del detto, il secolo, lo stesso
per l’intero numero di tempi
che non sai unire
finché non ne impari il cerchio,
la fissità,
nonostante.
E in quel punto capisci che nulla ci fu affidato,
che in verità è la divisione a farsi spazio ovunque:
ancora non ti sei accorto delle mie mani
rovesciate all’aria, del posto
che hanno liberato, di come
su quel niente
sanno stare – ferme?

Quella sera, di ritorno,
lui che guidava, a lato
una scia interminabile d’alberi, tralicci,
edifici: la campagna, e ogni cosa farsi
stranamente
presente e viva
solo se arretrava in una sua foschia interiore,
se ritraendosi anche ciò che avevamo
di più proprio – nome, famiglia, stato
di cittadinanza, la nostra superstizione psichica e morale
dissolvere per un contagio implacabile,
quello che avrei
voluto dirti,
darti. Ma non tutto
e non in una volta. Forse nemmeno
adesso.
Sono così stanca
che non possono che seguire altre considerazioni del genere,
del genere di ciò che nella stretta di un’emozione
si balbetta appena:
le parole – le più semplici
tutto ciò che dimezzato si abbandona
privo di sensi
al suolo, che per forma d’effusione
oh, reclina – sulla linea di questo piano
senza che la sua forza, che la sua bellezza
si converta in atto. Mai.
Ma questo, il suo celeste

un dio lo conosce meglio di noi.
L’arte di un qualche rogo inceneritore,
la forbice che recide ripetutamente
senza che essi ne sappiano qualcosa.
E anche ora, come rapida l’eclissi
in questa strada – se l’occhio
non trattiene altro che contorni brevi, scatti,
così poco veramente, le raffiche alterne
dei fanali,
asfalto. Il rogo che succede
l’attimo dopo, e poi la redenzione
di ciò che porterai un giorno a caso
nel tuo mattino.
Un dio lo sa, che perché vi sia una forma,
un posto
dove far ritorno, occorre
soffiargli dentro questa prodigiosa
cavità, soltanto questo tipo
di distanza tra una parete e l’altra,
e lasciarla agire
come un magnete.
Tu dunque
non temere, che io non lo dirò a nessuno
dove sei stato
tutto questo tempo,

tutto il tuo tempo, mai stato veramente tuo,
– quale altro il regno. (…)
Nah ist, Und schwer zu fassen der Gott.
Prossimo è il Dio e difficile è afferrarlo.
Hölderlin

(da BLUMEN primo studio, Calligraphie 2013)