lo penso: e vedo (o sogno) un piccolo villaggio, una gran pace: dentro, un cantar di galli. E il piccolo villaggio si smarrisce in un fiaccar di neve. Entro il villaggio in abito da festa una casetta bianca. Furtiva accenna una testina bionda tra le cortine mosse. Schiudo la porta; e i cardini, stridendo, chIedono fiochi aiuto. Poi, nella stanza, un timido e sommesso profumo di lavanda.
Respiran lievi gli altissimi abeti racchiusi nel manto di neve. Più morbido e folto quel bianco splendore riveste ogni ramo via via. Le candide strade si fanno più zitte: le stanze raccolte più intente. Rintoccano l’ore. Ne vibra percosso ogni bimbo tremando. Di sovra gli alari, lo schianto d’un ciocco che in lampi e faville rovina. In niveo brillar di lustrini, il candido giorno là fuori s’accresce, divien sempiterno Infinito.
Non aver paura, sono io. Non senti che su te m’infrango con tutti i sensi? Ha messo ali il mio cuore e ora vola candido attorno al tuo viso. Non vedi la mia anima innanzi a te adorna di silenzio? E la mia preghiera di maggio non matura al tuo sguardo come su un albero? Se sogni, sono il tuo sogno ma se sei desto sono il tuo volere; padrone d’ogni splendore m’inarco, silenzio stellato, sulla bizzarra città del tempo.
Tutto ciò su lei stava ed era il mondo, stava su lei con tutto, pietà e ansia, come alberi che crescono diritti; tutto immagine, eppure senza immagini, come arca dell’alleanza, e solenne, come rivolto a un popolo. E lei lo sosteneva tutto intero, ciò che vola, che fugge, che è lontano, l’immenso, il non appreso ancora, calma come la portatrice d’acqua regge la brocca colma. Finché a mezzo il gioco, trasformando e altro preparando, insensibile il primo velo bianco sul volto aperto adagio scivolò, diafano quasi e per non più levarsi, e chi sa come a ogni domanda una sola, vaga risposta replicando: in te, che un tempo fosti bambina, in te.
Tu non sei più vicina a Dio di noi; siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende benedette le mani. Nascono chiare in te dal manto, luminoso contorno: io sono la rugiada, il giorno, ma tu, tu sei la pianta.
Come una indefinibile fata d’ombre… Vien da lungi la Sera, camminando per l’abetaia tacita e nevosa. Poi, contro tutte le finestre preme le sue gelide guance e, zitta, origlia! Si fa silenzio, allora, in ogni casa. Siedono i vecchi, meditando. I bimbi non si attentano ancora ai loro giochi! Le madri stanno siccome regine. Cade di mano alle fantesche il fuso. La Sera ascolta, trepida pei vetri: tutti, all’interno, ascoltano la Sera.
La mia vita non è quest’ora ripida che mi vedi scalare in fretta. Sono un albero innanzi all’orizzonte, una delle mie molte bocche, e la prima a chiudersi. Sono l’attimo tra due suoni che male s’accordano perché il suono morte vuole emergere – Ma nella pausa buia si riconciliano entrambi tremando. E bello resta il canto.
Iracondi vedesti schizzar fuoco, due ragazzi avvinghiarsi in un groppo solo ch’ era odio e si rotolava sulla terra come bestia assaltata dalle api; mimi vedesti, fanfaroni tronfi, cavalli furiosi che stramazzano, gli occhi stravolgono, mostrano i denti quasi dal muso si staccasse il cranio. Ma ora sai come questo si dimentica: perché hai davanti, colma e inobliabile, la coppa delle rose che gli estremi ha in sé dell’essere e del declinare, porgere, non-poter-mai-dare, esserci, che può anche esser nostro: anche per noi estremo. Tacita vita, aprirsi senza fine, sete di spazio che non toglie spazio allo spazio che il cerchio delle cose restringe, forma non circoscritta, senza contorni quasi e solo interna, stranamente tenera e che da sé fino all’orlo s’illumina: conosci cosa che somigli a questa? . Ed a questa: che un sentimento nasce perché petali toccano altri petali? E questa: che uno s’apre come palpebra e sotto non ci sono altro che palpebre, chiuse, quasi dormendo dieci volte dovessero attutire un’energia visiva interna. E soprattutto: che per questi petali deve passare luce. Essi dai mille cieli filtrano lentamente quella goccia di tenebra nel cui bagliore l’intricato fascio degli stami si eccita e s’impenna. E vedi i movimenti nelle rose: oscillano in così stretto angolo che i gesti resterebbero invisibili se i loro raggi non si spiegassero a ventaglio nel cosmo. Vedi la rosa bianca distendersi beata ed ergersi nei grandi aperti petali come una Venere nella conchiglia, e quella che arrossisce e si volge confusa a quella fresca, e come quella fresca si ritrae insensibile, e come chiusa in sé la rosa fredda sta fra le rose aperte che ogni veste depongono. E ciò che svestono, come può esser lieve, o pesante; mantello o ala o carico, o maschera, secondo ciò che svestono, e come: sotto l’occhio dell’amato. Possono essere qualsiasi cosa: forse non era quella gialla che giace aperta e vuota la corteccia d’un frutto in cui quel giallo era il succo, più denso ed arancione? E non era già troppo, per quest’ altra, sbocciare, se al contatto dell’aria il suo rosa indicibile ha assunto il gusto amaro del lillà? E questa, di batista, non è la veste a cui tenera e ancora calda aderisce la camicia che con lei fu gettata nell’ombra del mattino su una spiaggia della foresta antica? E questa porcellana dai riflessi d’opale, tazza cmese bassa, fragile piena di piccole farfalle chiare – e quell’altra che nulla contiene oltre se stessa. Ma tutte non contengono nient’ altro che se stesse, se contener se stesse vuoI dire: il mondo esterno, e vento e pioggia e la pazienza della primavera, e colpa ed inquietudine, mascherato destino, e il buio della terra a sera, fino al volo delle nubi che s’appressano e fuggono, al vago influsso di remote stelle, mutarlo in breve spazio entro di noi. Tutto questo ora posa spensierato nel grembo aperto delle rose.
Con un cenno della fronte respinge lungi da sé ogni vincolo, ogni limite perché per il suo cuore passa alto e immenso il ciclo degli eventi che ricorrono eterni. Nei fondi cieli scorge una folla di figure che lo chiamano: riconosci, vieni -. Ciò che ti pesa, perché lo sostengano, non affidarlo alle sue mani lievi. Verrebbero di notte a provarti nella lotta, trascorrendo la casa come furie, afferrandoti come per crearti e strapparti alla forma che ti chiude.
Tutto ciò su lei stava ed era il mondo, stava su lei con tutto, pietà e ansia, come alberi che crescono diritti; tutto immagine, eppure senza immagini, come arca dell’alleanza, e solenne, come rivolto a un popolo. E lei lo sosteneva tutto intero, ciò che vola, che fugge, che è lontano, l’immenso, il non appreso ancora, calma come la portatrice d’acqua regge la brocca colma. Finché a mezzo il gioco, trasformando e altro preparando, insensibile il primo velo bianco sul volto aperto adagio scivolò, diafano quasi e per non più levarsi, e chi sa come a ogni domanda una sola, vaga risposta replicando: in te, che un tempo fosti bambina, in te.
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