Eccolo mio cugino che mi cammina a fianco nella luce ubriaca del primo pomeriggio e, chissà perché, mi dice: «Lo sai che quand’eri più giovane assomigliavi a Pirlo?» Ecco, l’avevo rimosso questo particolare, adesso che non posso più incontrarti lungo il traffico patibolare di via Colombo e accompagnarti in macchina fino alla stazione perché, a quasi quarant’anni, non hai la patente e non sai guidare. Ma chi sa guidare la vita che pregiudica la vita, se perfino la tua compagna ti punta alla gola, nel sonno, il coltello più affilato? Ora che non ti posso più incontrare vorrei dirti che non mi eri cugino che non mi eri fratello. Assumi, come Pirlo, le mie sembianze di un tempo. Rincorriamo nel vento, felici della nostra infelicità, la palla immaginaria che non hai voluto, saputo stoppare. Da Trittico del distacco (2015)
II La notte prima della tua scomparsa ho rischiato di investire una volpe con la mia Opel, in via Ca’ Paliaga. È apparsa come un lampo bianco e cremisi, la stessa improvvisa evanescenza di un fuoco fatuo nell’oscurità. È apparsa all’improvviso come una stigmate su un palmo, lo sfregio di una lama su un bel volto. E proprio quell’animale estraneo, a suo modo araldico, doveva annunciarmi, ebbro di sventura, che saresti l’indomani soffocato nel bozzolo stesso del tuo fiato. Chissà se, nel tuo letto di ospedale, la notte prima della tua scomparsa, sempre più piccolo e indifeso, hai sognato una volpe che mi attraversava la strada. Da Trittico del distacco (2015)
Dal carapace della carrozzina tendono un volto senza più espressione nella grande sala dove uno schermo riproduce immagini di scherno. Masticano parole senza senso, si assopiscono sul castello sbilenco delle vertebre dopo aver roteato gli occhi in cerca di un familiare che li accompagni in giardino a sonnecchiare sopra una panchina, a biascicare corone di frasi senza senso tra le girandole primaverili delle foglie, inconsapevoli che presto dovranno attraversare in silenzio, soli, la porta di un altro reparto. Da Trittico del distacco (2015)
Io, diventato padre di mio padre. Tu, diventato figlio di tuo figlio. Ti lavo ti sfamo ti accudisco. Mangi, come un cane, dalla mia mano. Non articoli che poche parole intelligibili scandite in corone di frasi senza senso. Parole che somigliano al silenzio. Mi guardi e ti guardi. Con quegli occhi sempre più piccoli e smarriti mentre la tua voce di nebbia mi esorta febbricitante a portarti – «andemo dài andemo» – laddove non esistono che nuvole ignare di ogni nostra parentela. Da Trittico del distacco (2015)
Sbucano all’improvviso da un vicolo assolato, da un androne di pizzeria, dalla ressa di un bagnasciuga, spaesati, a gruppetti di quattro di sei di otto, tenendosi per mano, le lunepiene dei volti glabri, rincagnati, da cui spuntano occhietti sottili come spilli sempre rivolti all’accompagnatrice. Rispondono a monosillabi – sì no, no sì – l’esistenza ridotta a una semplice opzione. Si inebriano per un gelato, piangono per un nonnulla. In realtà sono loro che dovrebbero avere di noi compassione. Sfoggiano zainetti multicolori, berretti col frontalino dove campeggia la scritta di qualche università dell’Ohio. Da Trittico del distacco (2015)
Non mi ricordo se fosse ad ottobre – tu non avevi ancora dieci mesi – che Horus si posò sul davanzale della mia finestra, restando immobile a fissare un panorama di alberi scheletriti e cascinali. Era un esemplare di dimensioni modeste, poco più grande dei piccioni che cacciava lungo campi e argini di questa ragnatela di canali. Io mi avvicinai cautamente, rimasi immobile quanto lui, forse a mezzo metro da lui, osservando finalmente il dettaglio delle sue penne tra marrone e cinerino, l’occhio rotondo e severo rivolto per un attimo, unica concessione del dio, al mio stupore, prima che definitivamente nel vento del primo pomeriggio si involasse. Da Ritorno a Sovana (2003)
Avanti miei ossicini, ribadite nel vento il disegno sbilenco di un castello anatomico con folgori di vene azzurre che attraversano feritoie e orifizi, lo sguardo impietrito sull’erba di parole bruciate come stoppie, brucate dalle capre che arrancano abbaglianti verso la torre rovesciata del sangue. Da Marine e altri sortilegi (2006)
Il sole barbuto di mezzogiorno pigramente ti bruca la faccia. Voli da un’ora fra il marciapiede e le case, stringendo in pugno il cuore morso di una melagrana. Nel delirio del vento il tuo impermeabile è una bandiera. Le lingue sbilenche dell’erba, il canale di scolo dove un cane sbanda la sua corsa tra le viti. Il nero feticcio del paesaggio premuto a malincuore sul petto. Da Ritorno a Sovana (2003)
Guidare lentamente lungo il dedalo di strade che si affacciano sul mare scontroso di questi mattini invernali senza sapere perché, dove andare. Ma basta sentirlo tra le costole, sul palmo delle mani come stimmate, sul volto come l’erba brucata dalle capre, questo sole lunatico che aggira pigramente il versante azzurrino del litorale per nascondersi tra i rami folgorati di quel mandorlo a cui pende, mano mozzata, il tenero presagio delle gemme. Poi piomba sul viso, acceca, portando con sé il pallore irriducibile di chi non ha pudore. Da Marine e altri sortilegi (2006)
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