Non pur d’argento o d’oro vinto dal foco esser po’ piena aspetta, vota d’opra prefetta, la forma, che sol fratta il tragge fora; tal io, col foco ancora d’amor dentro ristoro il desir voto di beltà infinita, di coste’ ch’i’ adoro, anima e cor della mie fragil vita. Alta donna e gradita in me discende per sì brevi spazi, c’a trarla fuor convien mi rompa e strazi.
Tanto sopra me stesso mi fai, donna, salire, che non ch’i’ ‘l possa dire, nol so pensar, perch’io non son più desso. Dunche, perché più spesso, se l’alie tuo mi presti, non m’alzo e volo al tuo leggiadro viso, e che con teco resti, se dal ciel n’è concesso ascender col mortale in paradiso? Se non ch’i’ sia diviso dall’alma per tuo grazia, e che quest’una fugga teco suo morte, è mie fortuna.
Le grazie tua e la fortuna mia hanno, donna, sì vari gli effetti, perch’i’ ‘mpari in fra ‘l dolce e l’amar qual mezzo sia. Mentre benigna e pia dentro, e di fuor ti mostri quante se’ bella al mie ‘rdente desire, la fortun’ aspra e ria, nemica a’ piacer nostri, con mille oltraggi offende ‘l mie gioire; se per avverso po’ di tal martire, si piega alle mie voglie, tuo pietà mi si toglie. Fra ‘l riso e ‘l pianto, en sì contrari stremi, mezzo non è c’una gran doglia scemi.
A l’alta tuo lucente dïadema per la strada erta e lunga, non è, donna, chi giunga, s’umiltà non v’aggiungi e cortesia: il montar cresce, e ‘l mie valore scema, e la lena mi manca a mezza via. Che tuo beltà pur sia superna, al cor par che diletto renda, che d’ogni rara altezza è ghiotto e vago: po’ per gioir della tuo leggiadria bramo pur che discenda là dov’aggiungo. E ‘n tal pensier m’appago, se ‘l tuo sdegno presago, per basso amare e alto odiar tuo stato, a te stessa perdona il mie peccato.
Pietosa e dolce aita tuo, donna, teco insieme, per le mie parte streme spargon dal cor gli spirti della vita, onde l’alma, impedita del suo natural corso pel subito gioir, da me diparti. Po’ l’aspra tuo partita, per mie mortal soccorso, tornan superchi al cor gli spirti sparti. S’a me veggio tornarti, dal cor di nuovo dipartir gli sento; onde d’equal tormento e l’aita e l’offesa mortal veggio: el mezzo, a chi troppo ama, è sempre il peggio.
Amor, la morte a forza del pensier par mi scacci, e con tal grazia impacci l’alma che, senza, sarie più contenta. Caduto è ‘l frutto e secca è già la scorza, e quel, già dolce, amaro or par ch’i’ senta; anzi, sol mi tormenta, nell’ultim’ore e corte, infinito piacere in breve spazio. Sì, tal mercé, spaventa tuo pietà tardi e forte, c’al corpo è morte, e al diletto strazio; ond’io pur ti ringrazio in questa età: ché s’i’ muoio in tal sorte, tu ‘l fai più con mercé che con la morte.
Per esser manco, alta signora, indegno del don di vostra immensa cortesia, prima, all’incontro a quella, usar la mia con tutto il cor volse ‘l mie basso ingegno. Ma visto poi, c’ascendere a quel segno propio valor non è c’apra la via, perdon domanda la mie audacia ria, e del fallir più saggio ognor divegno. E veggio ben com’erra s’alcun crede la grazia, che da voi divina piove, pareggi l’opra mia caduca e frale. L’ingegno, l’arte, la memoria cede: c’un don celeste non con mille pruove pagar del suo può già chi è mortale.
S’alcun legato è pur dal piacer molto, come da morte altrui tornare in vita, qual cosa è che po’ paghi tanta aita, che renda il debitor libero e sciolto? E se pur fusse, ne sarebbe tolto il soprastar d’una mercé infinita al ben servito, onde sarie ‘mpedita da l’incontro servire, a quella volto. Dunche, per tener alta vostra grazia, donna, sopra ‘l mie stato, in me sol bramo ingratitudin più che cortesia: ché dove l’un dell’altro al par si sazia, non mi sare’ signor quel che tant’amo: ché ‘n parità non cape signoria.
Come può esser, ch’io non sia più mio ? O Dio, o Dio, o Dio! Chi m’ha tolto a me stesso, ch’a me fosse più presso o più di me potessi, che poss’io? O Dio, o Dio, o Dio! Come mi passa el core chi non par che mi tocchi? Che cosa è questo, Amore, c’al core entra per gli occhi, per poco spazio dentro par che cresca; e s’avvien che trabocchi?
O Notte, o dolce tempo, benchè nero, con pace ogn’opra sempre al fin assalta, ben vede e ben intende chi t’esalta, e chi t’onora ha l’intelletto intero. Tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero, che l’umid’ ombra e ogni quet’appalta, e dell’infima parte alla più alta in sogno spesso porti ov’ire spero. O ombra del morir, per cui si ferma ogni miseria all’alma, al cor nemica, ultimo degli afflitti e buon rimedio, tu rendi sana nostra carn’ inferma, rasciugh’ i pianti e posi ogni fatica e furi a chi ben vive ogni ira e tedio
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