Vedere nuda la vita mentre si parla una lingua per dire qualcosa. Uscire di sera rende la vita più bella ma è il poco sole obliquo la sera senza parole. Vedere nuda la vita quando c’eri con le tue cose. Adesso le cose sono sole, non c’è la promessa del tuo svegliarti e continuare con le ciabatte, le tazze, i cucchiai. Non è valsa la pena affaccendarsi. Il gioco dei giorni è la promessa che non sapevi aperdere sempre da prima. Mario Benedetti (Udine, 1955), da Tersa morte (Mondadori, 2013)
Il cielo sta su nel pensiero di piangere. Sulla strada gli uomini sono andati metà muro, metà fiume. Sto qui molto lontano dai templi, dalle processioni tra i lumini, molto lontano dai romanzi dove c’era la luce dei visi. Sto con gli ultimi anni di un uomo a cui voglio bene, vorrei perdonargli di morire, cosa fare. A sapere bene forse potrei dire: anche per noi una visione intera con uno specchio sopra, con un cielo. Mi tengo al suo sguardo perduto così particolare, così solo, senza romanzi, con il campo che non è un mondo. Non so andare avanti. Ogni tanto i contadini di Anna Karenina falciano Masckin Verch. Ogni tanto sogno bambini bellissimi nell’acqua effervescente di una strada. E io li vedo di schiena, qualcuno ci vede, io sono di schiena nei colori.
Sono finiti gli anni della casa, anche quelli che si pensava fossero ancora lì con abeti, la bicicletta che tenevano su. Ci sono un ragazzo e una donna nei movimenti che si rompono senza dolore lungo quello che è il loro cortile. C’è dell’erba di là, come non saprei dire, sotto gli alberi che fa un po’ di prato. Come le viti sono i legni secchi dei rovi, qualche foglia strana dei rovi. Sono un fiore che cresce più di quello che possa, di quello che è a toccarlo. Come quando si dice “mi hai portato dei fiori”, e sono solo dei poveri fiori. Come quando si dice “così sono stati i poeti”. Mario Benedetti (Udine, 1955), da Una terra che non sembra vera (Campanotto editore, 1997)
Girano nell’estuario davanti a Recouvrance i battelli, e lo popolano di vele, e ancora lungo la banchina è porto dove adesso è porto militare, e strade riservate con la guardia… Con gli occhi aperti delle donne ferme che ho visto e la giacca per il vento, quasi lussuosa e unica la tua giacca, a cosa ti posso assomigliare, quasi una stampa nella via… Mangio qualcosa, sono qui i giornali, i cibi, mi piace stare seduto a guardare alla finestra le nuvole, dormo, tornano delle mani nelle tue, allegre, attimi, ecco, sono questo, prendimi mio Signore, stare così raccolto. Come si fa sempre a vivere. Avere nelle mani il freddo, il vento… sentire solo perché un altro ti veda così e ti porti per sempre via.
Ritornare nei giorni, mandarli avanti. Anni fa, adesso, domani. Era così per te, è così per tutti? Stare nelle ore per altre ore, nei giorni che ci saranno. E dire dei morti come se fossero ancora dei vivi, come è necessario sorridere quando si è in compagnia. Mario Benedetti (Udine, 1955), da Tersa morte (Mondadori, 2013)
Quanto siamo stati con le foglie che vanno via dai rami. Sono state le musiche dolci, dove dirsi di morire. Hanno portato tanti libri, gli uomini a tornare tra pochi fanali, i tram, le ciminiere. Mi sarebbe piaciuto passeggiare con un bastone tra le foglie che cadono, avere un cancello da aprire, e per Catine sapere cos’era portarci la polenta con parte del giallo pieno della bicicletta di Giovanni da portare dentro. Pioverebbe, sarebbe novembre. Siamo stati così tanto insieme ognuno di noi con le cose. Sai, a volte cerco di vederti, che cos’è lavorare, avere dei muri tuoi. Tornare di sera era sempre una forza sui pedali, gambe sulle quali si metteva un panno, muscoli con un panno grigio con la piega. Svelto e birichino, aria di festa, appoggiavi il giorno intero, dove tanto ti ho vegliato, a quel muro.
Sta solo fermo nella tosse. Un po’ prende le mani e le mette sul comodino per bere il bicchiere di acqua comprata, come tanti prati guardati senza dire niente, tante cose fatte in tutti i giorni. Intorno ha una cassettiera con lo specchio, due sedie scure, un armadio, l’incandescenza minuscola di una stufa. Dei centrini, la stampa di una natività con il rametto di ulivo, un taccuino, dei pantaloni, delle cose sue. Davanti il cielo che è venuto insieme a lui, gli alberi che sono venuti insieme a lui. Forse una ghiaia di giochi e dei morti, che sono silenzio, un solo grande silenzio, un silenzio di tutto. A volte l’acqua del Cornappo era una saliva più molle, un respiro che scivolava sui sassi. A volte tutto era l’uccellino del freddo disegnato sul libro di lettura vicino a una poesia scritta in grande da imparare a memoria. A volte niente, venire di qua a prendere il pezzo di cioccolato e la tosse, quella maniera della luce di far tremare le cose, gli andirivieni, il pavimento stordito dallo stare male.
E’ unito per tutto il cielo alto l’asfalto. Alcune sotto le altre le nuvole sono la paura delle case lucenti per le lamiere del mare. Si sta dentro con la paura che il corpo è strano che non faccia male, povere e care le dita che danno alla bocca queste ore immense di noi. Qualcuno che risale, è l’erba che hanno le gambe laggiù, come il vento isola i capelli. A volte con i fiori in casa… circondati da pensieri. La Croce dei marinai è il mare portato lì, le case costruite con il lavoro sulle barche, gli uomini cosa hanno saputo fare degli occhi che non possono vedere, delle mani che si fermano per sempre. Con il sole dal faro scende sui campi parte degli occhi del pittore italiano Lucio Fontana. Niente ci ricorda la piccola posata, il tavolo. Nelle mani il vetro che siamo noi e ciò che adesso è il cameriere.
Non sapevo se le mie parole erano le stesse per tutti, la mia notte se era la stessa nessuno lo sapeva. Valli, ogni volta che venivo, erba ripetevo, adesso è ancora questa erba, e alberi, toccarli, dire alberi. Viale che non guardo, rimasto come lo sapevo ma neppure un viale. E cammino anche più in là di me adesso che piangere è pioggia, e stare soli è più grande. Mario Benedetti (Udine, 1955), da Umana gloria (Mondadori, 2004)
La piu grande biblioteca online di poesie in italiano