Ti ho versato nel bicchiere una manciata di capelli bruciati, perché tu non mangi, non canti, non beva, non dorma. Perché la giovinezza non ti sia gioia, perché lo zucchero non ti sia dolce. Perché tu non te la intenda nel buio della notte con la giovane moglie. Come i capelli tuoi d’oro sono divenuti cenere grigia, così gli anni miei giovani diventeranno bianco inverno. Perché tu diventi cieco-sordo, perché ti dissecchi come il muschio, perché ti dilegui come un sospiro.
Grido delle stazioni: resta! delle sale d’aspetto: oh, compassione! grido delle stazioni secondarie: non è l’esclamazione di Dante: “lasciate ogni speranza”? E grido delle locomotive. Con il ferro squassa e col rombo di un’onda oceanica. Agli sportelli delle casse credevi che commerciassero in spazi? In mari e terreferme? Nella più viva delle carni: carne siamo – non anime! Labbra – non rose! Via da noi? – No, su di noi le ruote trasportano gli amati! Alla tale e alla tal’altra velocità all’ora. Sportelli delle casse. Ossicini d’una passione da giocatori. Ha ragione quel qualcuno di noi che disse: l’amore è uno scorticatoio! “- La vita è rotaie! Non piangere!” Massicciate – massicciate – massicciate… (Negli occhi di questi ronzini i proprietari guardano malvolentieri). “Senza fosso e senza cucitura non c’è felicità. – Con questo l’ho comprato,” quella sarta aveva ragione. Al che, dopo un silenzio: “Ci sono le traversine.”
Ecco ancora una finestra, dove ancora non dormono. Forse – bevono vino, forse – siedono così. O semplicemente – le due mani non staccano. In ogni casa, amico, c’è una finestra così. Non candele o lampade hanno acceso il buio: ma gli occhi insonni! Grido di distacchi e d’incontri: tu, finestra nella notte! Forse, centinaia di candele, forse, tre candele… Non c’è, non c’è per la mia mente quiete. Anche nella mia casa è entrata una cosa come questa. Prega, amico, per la casa insonne, per la finestra con la luce
Un bianco sole e basse, basse nubi, lungo gli orti – dietro il muro bianco – un cimitero. E sulla sabbia file di spauracchi di paglia sotto le traverse a statura d’uomo.
Sono contenta che voi siate ammalato non di me, sono contenta che io sia ammalata non di voi, che mai la pesante sfera terrestre mancherà sotto i nostri piedi.
A noi, fervide sorelle, Toccherà andare all’inferno, Bere l’infernale pece, Noi, che in ogni nostra vena Al Signore lodi alzammo! Noi su culla e filatoio Mai ricurve nella notte, Trascinate sulla barca Con indosso l’ampio burka. Noi, fasciate in fini sete Della Cina fin dall’alba, Che cantammo inni celesti Sotto il rogo del brigante. Casalinghe neghittose — Cuci e scuci, e tutto a sfascio! — Danzatrici e flautiste, Tutto il mondo ─ ai nostri piedi! Ora indosso pochi stracci, Ora appese fra le stelle. Per fortezze e per taverne Marinando i sette cieli. A passeggio nelle notti Nel giardino che fu d’Eva… – A noi, care sorelline, Ragazzine mie cortesi, Toccherà andare all’inferno!
Ora io sono un ospite celeste nel tuo paese. Ho visto l’insonnia del bosco e dei campi il sonno. Da qualche parte nella notte gli zoccoli strappano l’erba. Pesante è il sospiro di una mucca nella stalla assonnata. Io ti dirò con tutta la tenerezza e la malinconia dell’oca guardiana e delle oche che dormono. Le mani affogate nel pelo del cane, il cane canuto, Poi, verso le sei, l’alba è arrivata.
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