vorrei che ti mettessi quel vestito che hai comprato in un giorno di luglio dopo che avevi detto ti amo anch’io vorrei che ti mettessi quel vestito per me, un’ultima volta, poi, vorrei fondermi alla terra e riposare dove lei riposa
Nel fronte interno srotolano i dispacci sotto lampade da miniera e l’ignoto attraversa il paese come filo spinato che sente battere la pala dei fanti, lo smalto delle gamelle contro la latta e metri d’aglio. Maria, abbiamo del gran danno nella testa sporca di bestia che scappa sottoterra, abbiamo nella groppa il crollo dei muli sotto il peso plebeo dei materiali. Dammi il cuore Maria, perché il tuo cuore pesi come la terra tra le mani mentre io ti raggiungo sotto il pericolo. Maria, con i pensieri che non smettono mai di pensarmi, anche dopo tienimi a te, al mio posto sulla terra dei nomi. Solo tu sai il mio nome Maria, perché il mio nome è all’orlo della tua gola, bianco come un affogato nel canale sepolto nel tuo bianco che rinviene. Anche dopo, stanotte, quando io sarò cenere, pronunciami Maria con il tuo corpo. da Apocalisse dell’animale grande da La macchina responsabile (2007)
Il sudario si chiama sudario perché assorbe gli umori dei morti. Viene deposto sul volto, per nascondere allo sguardo dei vivi il lavorio della morte nei lineamenti amati, le enfiagioni e lo scavo finale, la riduzione all’osso, che riporta la materia conclusa di un corpo nel non finito dell’altra materia, all’indistinto delle zolle e degli astri. Il sudario è deposto per pudore sul volto, perché quel volto smetta di finire sotto i nostri occhi. Così vorrei che le parole, poiché non possono asciugare davvero neanche una goccia del vostro sangue, ricordassero almeno la vita, il celeste profondo o la rosa canina fra i paranchi che vi ha fatto sorridere per la sua ostinazione di essere viva nel cantiere perpetuo del porto luminoso di sole morente o l’altro sole, la grandezza radiale dell’alba sollevata tra guizzi di reale come un rinascimento. Mondo contemporaneo, che vai a morire tra i gabbiani delle periferie, sotto la rotazione della via lattea come una verde insonnia dell’universo che non ci guarda, mondo che sei questo infinito esistere che non contempla i mortali, senza nome e cognome torneremo cose tra le cose, senza involucri e senza nostalgia ritorneremo all’indifferenziato delle stelle. Ma adesso, adesso che siamo vivi Roma, 15 agosto 2018
Se anche mio figlio, ieri, col libro di grammatica greca aperto sul tavolo, sorridendo confuso tra il desiderio di non dispiacermi e il pragma della cosiddetta realtà, chiede: “A che serve?” io dico a voi, ragazzi: la bellezza è gratuità del gesto, come quando vi amate, è il momento [l’impulso] preciso in [per] cui un essere umano si stacca da terra, s’inginocchia e disegna un toro sulla parete della sua grotta, a Lascaux. Così, senza motivo. O ha scoperto il modo per non essere solo – e ha scoperto il modo per non morire. Maria Grazia Calandrone (Milano, 1964), inedito.
L’aria, la prima che hai respirato, era aria di marzo e di mattina. Il sole ardeva quieto nella sua onda dalla finestra grande perché grande era il cuore e disinteressato come il sole che appoggia la sua luce sulle acque del fiume e naviga chiaro fino al mare dove lo spazio è tutto attraversato da fischi di gabbiani e più niente fa male. È bello custodire l’aria nuova sul viso di chi nasce, con mani umane conservare sacro il sacro, fare l’aria più chiara dove tocca il cuore, perché il cuore sia semplice e leggero come un aquilone e altre cose che vanno dalla terra al cielo. Bello è dire farò quello che posso e più di me, come tutte le altre sulla terra: prendi, vita dalla mia vita la tua innocente libertà. da Sulla bocca di tutti (2010)
Canto perché ritorni quando canto canto perché attraversi tutti i giorni miglia di solitudine per asciugarmi il pianto. Ma ho vergogna di chiederti tanto e smetto il canto. Canto e sono leggero come un fiore di tiglio canto e siedo davvero dove mi meraviglio: all’inizio del mondo c’è l’ombra bianca delle prime rose che non sono più amare perché canto e ti vedo tornare come tornano a riva le cose: senza passato, con il petto lavato dal mare. Ecco!, sali le scale come un ragazzino che scrolla dalle ciglia una corona di sale, dà due beccate d’indice alla porta, s’inginocchia in fretta, in fretta dice: “Vieni!, ti porto al mare” e mi sorride, dalla sua statura di nevischio e di rose, dalla sua garza d’anima salvata dalle piccole cose. Dalla sua bocca bianca ride il mondo e ridono le cose trasparenti del cielo se, girandosi appena per pudore, dice: “Lo vedi, non ho più paura” come parlando a un’ombra evaporata nell’innocenza calma delle ginestre, a un fiatare di rose andato via per le finestre aperte fino alle fondamenta. Così mi lasci nell’aperto privo di peso. E allora canto lo stare seduti nel vivo, tutto l’amore privo, che non smetta la presenza perfetta di chi non pesa ma è senza volontà, senza maceria, senza l’avvenimento della materia è solo polvere che tende alla luce. Roma, 30 settembre 2010
Che modo magnifico di accettare la morte hanno gli animali. Non dimentico il primo piano di una cerva mangiata viva come in una hydrìa etrusca dalle leonesse: come lei si nettasse la pupilla con le palpebre dalle ciglia brevi mentre un rivolo lento di sangue le colava dal cono lacrimale, quale pazienza avesse nel mancare, come la massa fulva e muscolare del suo corpo lentamente crollasse e insieme a lei tutto lo sguardo come preso da un sogno si spegnesse. Io vedevo la vita ritirarsi come acqua che asciuga dai suoi occhi, mentre il suo grande corpo ripeteva sì, ecco, è il momento. Sia benedetta la tua rassegnazione. La santa muore come muore la cerva. La santa muore come l’animale. La santa è l’animale. Anche il suo corpo viene usato e spartito dopo la morte per il bene comune. Lei viene trafitta in pieno petto dall’amore di quello che non vede, che esiste solo finché lei Lo crede, è la cerva assalita che non chiude i suoi occhi e se li chiude è solo per lodare, per essere di più dentro se stessa e lodare: “Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità nella quale mi perdo, io mi abbandono a Voi come una preda. Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in Voi”, sospirava la carmelitana Elisabetta, dopo aver rinunciato a una brillante carriera di pianista per amore della Trinità. Insomma, tutto questo lavoro di indagine mortuaria per prepararmi ad andarmene come un animale e per comporre una sola opera, piccola. Per provarmi la fine e per dimenticare la fine. Per costruirmi lo stomaco forte delle mistiche e poter descrivere in una sola opera la bellezza di un angelo. Da quei cumuli di materia arsa, tumefatta, devastata, è salita a me un’estasi, la chiarità del sorriso dell’angelo che guardava Teresa, lei dietro un albero corso da torrenti di linfe mature, lei quasi inginocchiata e sempre fiera nella propria resa disumana. Lui che la guarda con le masse di oltrepassata morte nello sguardo e lei come la cerva accoglie l’amore che la ucciderà, con una sola lacrima di sangue. da L’infinito mélo (2011)
come giacinti nella viva luce di aprile entravi nella sera con fasci di asparagi e fragole lucide dentro il cestello della bicicletta e un odore di carta di pane che inumidiva al vespro, e di ginocchi raschiati contro il ruvido dei muri arsi da quella inerme esposizione a un’intera giornata di aprile e adesso, nel rosaceo stupendo della sera, ora che i muri esalano un calore umano tra le tenere fruste dell’erba, e un sentore di viole spande il suo irrazionale alito tra gli sguardi, rivivi nel rettangolo di cielo e marmo della soglia, fermo nel dolce male della tua grazia Roma, 4 marzo 2013
Maria Grazia Calandrone Il bene morale Crocetti Editore 2017 Novità – A breve in libreria per informazioni e richieste: info@poesia.it
L’amore è la salute della scimmia. Gli occhi dell’asino santo imbrattati dal vedere la ruggine quieta delle cisterne. Vento che arrota l’erba, l’ultravioletto calice della sera come una latitudine radiante. O il mare e i pomeriggi composti dall’involucro ninfale della cicala. Dammi le prove della tua gioia nella carcassa del quotidiano che rodi fin che è luce, luce…
Maria Grazia Calandrone La macchina responsabile Crocetti Editore 2007
I Sant’Anna, 12 agosto 1944 Conoscemmo il ragazzo dal ciondolo con la croce e la figura del santo era messa di fronte alla luce come prima di chiudere gli occhi dopo la discesa del sole che lascia il suolo con l’erba e la carne friggenti e le bestie ovunque divise da mani ancora sbarrate a proteggere il volto dalla mitraglia e la persona si storceva per tutti i sensi dell’eccidio. Rastrellavano bambini come grani di sabbia e come sabbia che ubbidisce al vento erano muti. Nessuno si difendeva: componevano dune inanimate, componevano cose piegate al vento sul sagrato, solo stringevano le foto addosso perché dopo qualcuno desse il giusto nome al corpo che ciascuno aveva usato da vivo. Seppellimmo Maria dentro la scatola della sua bambola. Alcuni tra quelli che davano ordini parlavano il dialetto delle nostre parti e infatti portavano bende colorate sul volto per la vergogna che il loro volto rimanesse visibile nello stupore dei morti. Altra cosa è il feto posato sul tavolo sotto gli occhi della madre seduta che diffonde un silenzio finale dal ventre aperto, fissa nello stupore la traiettoria minuscola del piombo da parte a parte tra le tempie minuscole. II Marzabotto, 29 settembre 1944 Uscimmo dopo che fu silenzio dal bosco sotto il picco di Monte Sole e conoscemmo che i maiali mangiano la nostra carne: mio nipote era sotto il pergolato e mio padre una povera cosa messa male su altri posati in due lati a cavalcioni di un davanzale, neri delfini arenati su una scogliera e dell’ultimo rimaneva la cuffia sotto la bocca, da fuoco. Alla prima esplosione conoscemmo ancora che quelli avevano minato i corpi così che i morti uccidessero i vivi che uscivano dai boschi a ricomporli, a sciogliere mani aggrappate una all’altra come piccoli ormeggi nella buia insenatura della morte perché ognuno fra i morti ritornasse solo e ognuno dei vivi potesse nominare quella solitudine come la solitudine di un parente lontano, potesse premere su quella lontananza la sua bocca, su quelle mani di polvere e corallo protese come nei giorni di sole quando tutto era prossimo alla somiglianza. Così tutti si sono inchinati, hanno tenuto bassa la testa su un numero più grande di ogni corpo. Roma, 3 settembre 2007 Nota: durante la ritirata i nazifascisti fecero strage di civili in numero di circa diecimila tra vecchi, donne e bambini. da La vita chiara (2011)
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