Se anche mio figlio, ieri, col libro di grammatica greca aperto sul tavolo, sorridendo confuso tra il desiderio di non dispiacermi e il pragma della cosiddetta realtà, chiede: “A che serve?” io dico a voi, ragazzi: la bellezza è gratuità del gesto, come quando vi amate, è il momento [l’impulso] preciso in [per] cui un essere umano si stacca da terra, s’inginocchia e disegna un toro sulla parete della sua grotta, a Lascaux. Così, senza motivo. O ha scoperto il modo per non essere solo – e ha scoperto il modo per non morire. Maria Grazia Calandrone (Milano, 1964), inedito.
Nel fronte interno srotolano i dispacci sotto lampade da miniera e l’ignoto attraversa il paese come filo spinato che sente battere la pala dei fanti, lo smalto delle gamelle contro la latta e metri d’aglio. Maria, abbiamo del gran danno nella testa sporca di bestia che scappa sottoterra, abbiamo nella groppa il crollo dei muli sotto il peso plebeo dei materiali. Dammi il cuore Maria, perché il tuo cuore pesi come la terra tra le mani mentre io ti raggiungo sotto il pericolo. Maria, con i pensieri che non smettono mai di pensarmi, anche dopo tienimi a te, al mio posto sulla terra dei nomi. Solo tu sai il mio nome Maria, perché il mio nome è all’orlo della tua gola, bianco come un affogato nel canale sepolto nel tuo bianco che rinviene. Anche dopo, stanotte, quando io sarò cenere, pronunciami Maria con il tuo corpo. da Apocalisse dell’animale grande da La macchina responsabile (2007)
Lo scoppio nelle camere di combustione (la combustione della grafia legata all’emisfera nella quale il corpo fu incominciato – incomincia ogni giorno – ad esistere prima per iscritto e dolcemente poi a desistere a cedere un calore di sottana alle sponde di acciaio cromato) con l’elevato grado di fermezza prodotta dal cobalto della schiuma marina. Nel letto vinilico i residui del nòcciolo radioattivo: cuore vicino al flusso della lava, vene senza esercizio – un fulmine globulare – le feritoie di olio e di bitume – perché il letto ha grandezza e superfici – navate – o è un Reno gelato e plebeo – piccole fruste che sbandano le truppe (e nei reparti vige una generale ritirata verso il santuario, la porta occidentale). Siete navi condotte dal vento come per mezzo di una lunga briglia a figure interne che tendono alla sequenza e alla stasi. Siete corpi iniziati dal nome e da quel nome – mamma – evaporate con quegli occhi iniziali scacciati dal dolore e dal freddo come bestie. **
Io sono nella mia morte – sono dove nessuno più mi cerca: infelice come una bambina – felice come una bambina. da Come per mezzo di una briglia ardente (2005)
Ora abbandona le mie parole, abbandonami lentamente in un rumore umano di martelli che quasi culla il mio sonno. Credi alla maggioranza del corpo e ai galli rochi della campagna. Forse amerai come me il sole a perpendicolo sui campi, quel bollore di terra che sembra un corpo che ama, e crederai alla schiena impietosita di un uomo che però scampa al suo destino. Credi alla prosa calda e senza civetteria degli acquedotti, alla masserizia macroscopica del bagliore del mare sulle credenze colme di tazze inglesi e tovaglie, credi a quello a cui io non ho creduto, anche mentre addormentavo il tuo piccolo corpo onnipotente che inverava il mio corpo disarmato dal tempo. Sei il solo ospite di sangue di una creatura senza stirpe. Domanda dunque alle conifere, alla presa pigra e ostinata delle tue dita nella scarpetta di gomma, domanda alla realtà – a un sestante di argilla – il giusto o l’umano tra i filamenti del mattino, la nostra data di deposizione: quello che si dimenticherà di noi, e quello che dimenticheremo, annientati e contigui. Il resto avviene nel buio di un mondo nostro senza più abbandono. da La scimmia randagia (2003)
io non so che vuol dire provare il microfono del Madison Square Garden con una schicchera svagata, poi spostare il microfono all’esterno del leggio, perché tutti mi possiate vedere soffiarvi contro, con smagata dolcezza, una filastrocca infantile per l’uomo più potente degli Stati Uniti io non so che vuol dire vacillare sui tacchi fino a sparire con quell’aria smarrita. io non so che vuol dire calcare la mano su ogni dettaglio del corpo fino a farsi male, atteggiare le labbra come fossero sempre sul punto di parlare, poi rinunciare, come se il cuore non avesse forza io non so che vuol dire scoprire che la propria radiosità infiamma folle di soldati, io non so che vuol dire sentirsi morire quando uomini e donne che ti hanno voluta ti scrollano via, io non so che vuol dire quando ti chiamano bambola e la bambola è la tua stessa carne. io non so che vuol dire voler essere amata, io non so che vuol dire voler essere amata ed essere merce ma so che vuol dire: faccio tutto, purché tu mi veda so che vuol dire dire e non dire: non lasciarmi cadere. per favore Maria Grazia Calandrone (Milano, 1964), da Il bene morale (Crocetti, 2017)
la tua carne nascente come una fiamma nella fiamma verde della campagna io non credo ai miei occhi vedo il bronzo dorato del corpo che si accosta io non credo ai miei occhi estrai oro volatile dal tuo petto capace di provare amore e mi dici tra i baci è un miracolo io non credo ai miei occhi tutta l’erba e l’intero profumo della campagna sono stupore questo pane lasciato nell’erba è stupore e lo è la bottiglia che schiuma sui fiori non ti asciughi la bocca la tua bellezza è senza sbarramento nel mio sangue c’è spazio senza dominio, e dal centro di tutta la vita mi zampilla un abbraccio grande come il mondo te l’avevo già detto in città, ti ricordi? guarda, il mondo è grandissimo, è il tuo amore che si è fatto spazio nuda a metà, l’asciugamano in spalla cammini con la carne rinata dai miei baci con piedi da bambina sali le scale, sali a sentire dove comincia l’anima di una creatura viva nel luogo cruciale c’è un grande silenzio e un ronzio di zanzare l’oro delle tue labbra la bianca oscillazione del tuo sangue dal corpo amato affiora un chiaro che trabocca, tutto il corpo fa un suono di mare come batte il tuo cuore e nel mio sangue splende la stessa luce ogni tanto ridiamo della mia pena che non esistano parole più grandi se io potessi aprirei il mio petto, ti ricordi? invento io le parole invento tutto il mondo per farti felice poi, ti ho lasciata andare come volevi non andare, dicevo, mi manca cosa sono con te, questa cosa capace, questo spazio assolato che diventa il tuo bene non solo il muscolo provava sofferenza, ma tutta la zona circostante doleva e il silenzio raschiava come una lima e completava l’opera spontanea del dolore quale eco, che luna, quale zolla, quale cratere, quale fra le alte stelle della notte che hanno illuminato la tua bocca ancora felice per l’amore, che pietoso pianeta si è mosso a compassione? cosa ha avuto bontà? il tuo corpo ancestrale ha rilasciato il suo corpo astrale alba che oscilli sulle cose mortali quando si svegliano come se non dovessero morire questo è quanto conosco dell’amore: le ferite che impiegano anni a tornare carne che vuole essere ancora benedetta dai baci, non lasciarla mai sola 9.7.14 (inedito)
I Sant’Anna, 12 agosto 1944 Conoscemmo il ragazzo dal ciondolo con la croce e la figura del santo era messa di fronte alla luce come prima di chiudere gli occhi dopo la discesa del sole che lascia il suolo con l’erba e la carne friggenti e le bestie ovunque divise da mani ancora sbarrate a proteggere il volto dalla mitraglia e la persona si storceva per tutti i sensi dell’eccidio. Rastrellavano bambini come grani di sabbia e come sabbia che ubbidisce al vento erano muti. Nessuno si difendeva: componevano dune inanimate, componevano cose piegate al vento sul sagrato, solo stringevano le foto addosso perché dopo qualcuno desse il giusto nome al corpo che ciascuno aveva usato da vivo. Seppellimmo Maria dentro la scatola della sua bambola. Alcuni tra quelli che davano ordini parlavano il dialetto delle nostre parti e infatti portavano bende colorate sul volto per la vergogna che il loro volto rimanesse visibile nello stupore dei morti. Altra cosa è il feto posato sul tavolo sotto gli occhi della madre seduta che diffonde un silenzio finale dal ventre aperto, fissa nello stupore la traiettoria minuscola del piombo da parte a parte tra le tempie minuscole. II Marzabotto, 29 settembre 1944 Uscimmo dopo che fu silenzio dal bosco sotto il picco di Monte Sole e conoscemmo che i maiali mangiano la nostra carne: mio nipote era sotto il pergolato e mio padre una povera cosa messa male su altri posati in due lati a cavalcioni di un davanzale, neri delfini arenati su una scogliera e dell’ultimo rimaneva la cuffia sotto la bocca, da fuoco. Alla prima esplosione conoscemmo ancora che quelli avevano minato i corpi così che i morti uccidessero i vivi che uscivano dai boschi a ricomporli, a sciogliere mani aggrappate una all’altra come piccoli ormeggi nella buia insenatura della morte perché ognuno fra i morti ritornasse solo e ognuno dei vivi potesse nominare quella solitudine come la solitudine di un parente lontano, potesse premere su quella lontananza la sua bocca, su quelle mani di polvere e corallo protese come nei giorni di sole quando tutto era prossimo alla somiglianza. Così tutti si sono inchinati, hanno tenuto bassa la testa su un numero più grande di ogni corpo. Roma, 3 settembre 2007 Nota: durante la ritirata i nazifascisti fecero strage di civili in numero di circa diecimila tra vecchi, donne e bambini. da La vita chiara (2011)
Che modo magnifico di accettare la morte hanno gli animali. Non dimentico il primo piano di una cerva mangiata viva come in una hydrìa etrusca dalle leonesse: come lei si nettasse la pupilla con le palpebre dalle ciglia brevi mentre un rivolo lento di sangue le colava dal cono lacrimale, quale pazienza avesse nel mancare, come la massa fulva e muscolare del suo corpo lentamente crollasse e insieme a lei tutto lo sguardo come preso da un sogno si spegnesse. Io vedevo la vita ritirarsi come acqua che asciuga dai suoi occhi, mentre il suo grande corpo ripeteva sì, ecco, è il momento. Sia benedetta la tua rassegnazione. La santa muore come muore la cerva. La santa muore come l’animale. La santa è l’animale. Anche il suo corpo viene usato e spartito dopo la morte per il bene comune. Lei viene trafitta in pieno petto dall’amore di quello che non vede, che esiste solo finché lei Lo crede, è la cerva assalita che non chiude i suoi occhi e se li chiude è solo per lodare, per essere di più dentro se stessa e lodare: “Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità nella quale mi perdo, io mi abbandono a Voi come una preda. Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in Voi”, sospirava la carmelitana Elisabetta, dopo aver rinunciato a una brillante carriera di pianista per amore della Trinità. Insomma, tutto questo lavoro di indagine mortuaria per prepararmi ad andarmene come un animale e per comporre una sola opera, piccola. Per provarmi la fine e per dimenticare la fine. Per costruirmi lo stomaco forte delle mistiche e poter descrivere in una sola opera la bellezza di un angelo. Da quei cumuli di materia arsa, tumefatta, devastata, è salita a me un’estasi, la chiarità del sorriso dell’angelo che guardava Teresa, lei dietro un albero corso da torrenti di linfe mature, lei quasi inginocchiata e sempre fiera nella propria resa disumana. Lui che la guarda con le masse di oltrepassata morte nello sguardo e lei come la cerva accoglie l’amore che la ucciderà, con una sola lacrima di sangue. da L’infinito mélo (2011)
Canto perché ritorni quando canto canto perché attraversi tutti i giorni miglia di solitudine per asciugarmi il pianto. Ma ho vergogna di chiederti tanto e smetto il canto. Canto e sono leggero come un fiore di tiglio canto e siedo davvero dove mi meraviglio: all’inizio del mondo c’è l’ombra bianca delle prime rose che non sono più amare perché canto e ti vedo tornare come tornano a riva le cose: senza passato, con il petto lavato dal mare. Ecco!, sali le scale come un ragazzino che scrolla dalle ciglia una corona di sale, dà due beccate d’indice alla porta, s’inginocchia in fretta, in fretta dice: “Vieni!, ti porto al mare” e mi sorride, dalla sua statura di nevischio e di rose, dalla sua garza d’anima salvata dalle piccole cose. Dalla sua bocca bianca ride il mondo e ridono le cose trasparenti del cielo se, girandosi appena per pudore, dice: “Lo vedi, non ho più paura” come parlando a un’ombra evaporata nell’innocenza calma delle ginestre, a un fiatare di rose andato via per le finestre aperte fino alle fondamenta. Così mi lasci nell’aperto privo di peso. E allora canto lo stare seduti nel vivo, tutto l’amore privo, che non smetta la presenza perfetta di chi non pesa ma è senza volontà, senza maceria, senza l’avvenimento della materia è solo polvere che tende alla luce. Roma, 30 settembre 2010
L’aria, la prima che hai respirato, era aria di marzo e di mattina. Il sole ardeva quieto nella sua onda dalla finestra grande perché grande era il cuore e disinteressato come il sole che appoggia la sua luce sulle acque del fiume e naviga chiaro fino al mare dove lo spazio è tutto attraversato da fischi di gabbiani e più niente fa male. È bello custodire l’aria nuova sul viso di chi nasce, con mani umane conservare sacro il sacro, fare l’aria più chiara dove tocca il cuore, perché il cuore sia semplice e leggero come un aquilone e altre cose che vanno dalla terra al cielo. Bello è dire farò quello che posso e più di me, come tutte le altre sulla terra: prendi, vita dalla mia vita la tua innocente libertà. da Sulla bocca di tutti (2010)
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