Luca Canali
Finire, svanire, deglutire
me stesso, ma finalmente
in un assalto alla vita
leale o fraudolenta,
non in brutale o ipocrita
ritorno alla placenta.
Finire, svanire, deglutire
me stesso, ma finalmente
in un assalto alla vita
leale o fraudolenta,
non in brutale o ipocrita
ritorno alla placenta.
Dimesso il pensiero
d’un addio alla vita, ho voglia
di giocare anch’io nel bene
e nel male la mia esistenziale
partita, di guardare sereno
da una soglia.
Sul loro consueto muretto
i vecchi pensionati leggono
il giornale, sereni, eppure
la morte li sfiora, quasi
li rende sacri, ed essi
ne apprendono i connotati dai
quotidiani massacri.
Non avevo speranze,
ora non ho più neanche
nostalgie, vivo
nel presente, macigno
d’inutilità, cigno
prigioniero senza canzoni
di libertà o guiderdoni
perversi di virile
banalità.
Agli uomini senza ambizioni politiche,
senza particolari doti d’ingegno, senza relazioni influenti,
cioè senza possibilità di scambio o di scampo,
che caddero oscuramente,
mossi da elementari bisogni e da elementari ideali.
A questi uomini che in morte come in vita
non ebbero mai né chiesero quartiere
e di cui la storia, che pure soprattutto di essi
si nutre, disperde prudentemente le tracce.
Ci siamo forse sempre
amati
senza incontrarci mai.
L’unico adulto
errore senza indulto
nella tua vita di ragazzo
mai cresciuto
(al pari di me)
è averci generati.
Ancora dalla clinica
Non illudermi con fiabe da girfalchi
su rotte dalle larghe scie,
di cavalli al galoppo in città
di ruder erbosi. Il tricolore
di magazzino sventola sul cantiere deserto,
sullo scheletro di un edifizio ultimato
per ospiti ignoti, fresco
di stucchi, di deroghe a planimetrie di bestemmie
– candida rissa di muratori -. E se piove e il cielo
natalizio s’abbuia a mezzodì il mio cappotto fuma
come sera la gioia disperata
e vinosa nelle bettole della vita.
Lo sciopero blu annottava sulla sfida
delle vetrine, raccolta da frombolieri in uno schianto
lumnoso di schegge, e angeli rissosi
celebravano il loro trionfo nei casini.
Ma il mondo inelegante
aveva una religione della vita,
nei tuguri, nelle chiese, nella pietra e nella lama
nei nemici ad un passo dall’amicizia,
nelle fle degli orinatoi, nei quadrivi
fruscianti di natiche avvolte nel rayon
tre sguardi patrizi e plebei,
una tregua d’albicocche e di rondini
nel cielo sgargiante del mezzodì
lacerato dalla sirena degli allarmi
antiaerei d’un tempo in una pace artigiana.
Ma i tiranni dell’olimpo al di sopra
delle nuvole d’illusioni allestivano trappole
per la fantasia dei reduci dall’inferno,
e il sinistro sorriso dei mercanti
svariava nell’impassibilità dei manager
che la crisi d’idrocarburi e bovini
solleva allo zenit dell’oro
strappato agli ex voto dei pegni e giocato
sulla miseria di scioperi bianchi
in metropoli a spazi stellari tra uomini
ligi alla norma d’un vano
cimento fra specchi e cieche
finestre d’albergo a schermo di amanti suicidi.
L’utopia da salvare è una rivoluzione
di giornio inventati, lo scarto beffardo
da un cupo corteo di protesta,
la fuga dei figli dai padri
costretti all’ossequio. allo stampo,
nell’ombra di schermi coniati
dal nulla, l’alone di tedio
e disprezzo incapace persino di abbagli.
Ogni mio verso è un furto
vitale alla mortale
quotidianità dell’agguato
– aggressione in potenza, passo
felpato – d’un esorcizzato
massacro.
Dolcissimo è rimanere
e guardare nella immobilità
sovrana la bellezza di una parete
dove il filo della luce e la lampada
esistono da sempre
a garantire la loro permanenza.
Montagna di luce ventaglio,
paesaggi paesaggi! come potrò
sciogliere i miei piedi, come
discendere – regina delle rupi
e degli abissi – al passo involontario,
alla mano che apre una porta, alla voce
che chiede dove andrò a mangiare?