La vita che amai e quel che fu il mio mondo. A volte sogno se ancora esiste. Ma gli anni asciugano il mio corpo e abituo gli occhi ad accettare questo paesaggio come l’ultimo. Non disperare m’è costato molto, benché sappia che la vita può solo volgere al peggio. A volte, per me e pochi amici pretendo quell’antico splendore. Come un assetato l’acqua, aspetto la notte. Allora cammino verso i bar del porto, e nella bellezza di qualche donna dimentico l’esilio.
Veli di bruma, lontano, lentamente attraversati da un sole di avorio liquido. Il vento muove soavemente i capelli che cadono sulla tua fronte, e la luce ti fa chiudere gli occhi, che per un attimo mi guardano. E quel sorriso, appena accennato, segno d’amor sereno, in pace, sicuro. In fondo, nella luce di questa mattina strana, la bellezza dei cipressi di San Francesco del Deserto.
Uscendo dalla nebbia nel freddo d’un mare triste fluttuano i grandi galleggianti. Le lunghe passerelle di legno si perdono come in uno specchio offuscato
È la Venezia che adoro Dove sono felice Ma forse Non l’amavo già prima di contemplarla Non era stato quell’abbagliamento Designato da antiche lamine da libri Dove si racconta il suo destino? Come scrivere era sempre stato lo spettacolo Lunare degli Angeli di Rilke la Bellezza La Stele degli Stuart di Canova E così Parigi se fu la mia giovinezza Sono evocazioni come se uscissero dalla nebbia di Verlaine Di notiziari della Liberazione del 44 Il mio passo su quel ponte ripeteva Quelli di Dante E il mio stupore davanti a Roma o Smirne o Istanbul È quello di quanti mi hanno preceduto E me l’hanno insegnato fuso coi miei occhi Come io sarò in altri Sopra le ardenti sabbie ho sentito La presenza disperata di Lawrence In ogni stagione la morte di Karenina Davanti a paesaggi che amo o a certe tele O emozionato di fronte a una facciata immagino Che cosa avrebbero sentito lì Montaigne Stendhal Goethe Come guardai i firmamenti siciliani Con gli occhi del Principe E con Stevenson ho navigato In cerca di fortuna e ogni terra nella lontananza era quella che Hawkins vide uscire dall’alba Nel capitolo XII de L’ISOLA Tante donne non sono state che la Sfinge Con la quale decoravo una storia La cui contemplazione mi appagava E in quante pagine Di Shakespeare o di Tacito O di Plutarco vidi sfilare attimi della mia vita E al succedere in esse incastonarsi Con il vasto respiro del creato In quel campo di battaglia io notai Il passo di Fabrizio Del Dongo che avanzava pure in un altro sogno La solitudine è il vento Contro la fortezza di Essaouira Qualcuno mi ha preceduto Persino in me stesso nella passione Per la Callas e nella lealtà Al vecchio Sud Confederato Un bambino che fui creò nelle sue notti L’uomo che adesso scrive
La sera sono solito passeggiare accanto alle navi giunte in porto. Contemplo il mare, gli uccelli. Divento vecchio. Dimenticatemi. Desidero solo nobilitare i giorni che mi restano ripetendo i vecchi versi, migliorandoli. Quando scende la notte e il mio corpo s’incammina in cerca di una donna, vi ascolto mormorare al mio passaggio: «Si fa vecchio, e non si cura d’avere una casa, una famiglia». Non amai vivere con una sola amante come non è uno solo il paesaggio che mi piace. Quanto ai figli, deploro non poco la vostra cieca e rischiosa incontinenza. Dimenticatemi Le mie notti le regalo alle ballerine dai piedi alati, ai loro favori il mio denaro.
Fu in una mattina di settembre. Il mare risplendeva come il sole in uno specchio. Io venivo da Trieste, e mi fermai in un piccolo ristorante vicino alla spiaggia sotto il castello di Duino. Assaporavo un bianco eccellente e qualche riccio, quando come in sogno, dalle acque emerse una creatura fantastica. Non aveva più di nove anni. Lunghi capelli lisci come l’oro, nuda, molto abbronzata. Che spuntava dal mare come la luce dell’alba. Mi passò accanto lasciando al suolo le sue impronte umide. M’innamorai del suo volto, dei suoi occhi, di quelle forme acerbe e perfette, la sua immagine s’impadronì della mia anima. Il suo sguardo non aveva fondo, con la forza di chi ignora la sofferenza, ogni gesto esaltava la bellezza selvaggia di un mistero animale. Guardandola compresi che m’era stato concesso di contemplare qualcosa di sacro. Era un dio al quale affidarti. Pura lode.
Fai portare quanto t’è necessario. Non uscire. Perché? Non ci sono luoghi dov’essere felice. Gli affari che ti danno da vivere, risolvili al telefono. O scrivi lettere, queste agli amici, nel tuo stile migliore. Di tanto in tanto, guarda se arde la città. Tieni pulita la tua 38. Cura scrupoloso i tuoi rosai. E sii orgoglioso se gli uccelli fanno il nido nel tuo giardino, che offre pace. Sotto i suoi alberi aspetta la sera e contempla il crepuscolo. Ringrazia gli dèi per questa magica stanza, per il giorno vissuto, per i libri, la musica, i quadri che salvi dalla Morte. E quando pietra o pallottola romperà i vetri, non alzare gli occhi da quello che t’occupa; anzi, persi nel paesaggio bellissimo dei tuoi libri scegli l’edizione più bella di Treasure Island. E mentre popolino e soldataglia con la stessa viltà si accoltellano, tu leggi sereno, ascolta Rubinstein interpretare Chopin. Accarezza il tuo cane sulla fronte. E a notte alta dirigi i tuoi passi verso il sonno.
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