Zeus non potrebbe sciogliere le reti di pietra che mi stringono. Ho scordato gli uomini che fui; seguo l’odiato sentiero di monotone pareti ch’è il mio destino. Dritte gallerie che si curvano in circoli segreti, passati che sian gli anni. Parapetti in cui l’uso dei giorni ha aperto crepe. Nella pallida polvere decifro orme temute. L’aria m’ha recato nei concavi crepuscoli un bramito o l’eco d’un bramito desolato. Nell’ombra un Altro so, di cui la sorte è stancare le lunghe solitudini che intessono e disfano questo Ade e bramare il mio sangue, la mia morte. Ciascuno cerca l’altro. Fosse almeno questo l’ultimo giorno dell’attesa.
Ringraziare voglio il divino labirinto delle cause e degli effetti per la diversità delle creature che compongono questo universo singolare, per la ragione, che non cesserà di sognare un qualche disegno del labirinto, per il viso di Elena e la perseveranza di Ulisse, per l’amore, che ci fa vedere gli altri come li vede la divinità, per il saldo diamante e l’acqua sciolta per l’algebra, palazzo di precisi cristalli, per le mistiche monete di Angelus Silesius, per Schopenhauer, che forse decifrò l’universo, per lo splendore del fuoco che nessun essere umano può guardare senza uno stupore antico
Mi crocifiggono e io devo essere la croce e i chiodi. Mi tendono il calice e io devo essere la cicuta. Mi ingannano e io devo essere la menzogna. mi bruciano e io devo essere l’inferno. Devo lodare e ringraziare ogni istante del tempo. Il mio nutrimento sono tutte le cose. Il peso preciso dell’universo, l’umiliazione, il giubilo. Devo giustificare ciò che mi ferisce. Non importa la mia fortuna o la mia sventura. Sono il poeta.
Si apre il cancello del giardino con la docilità della pagina che una frequente devozione interroga e, dentro, gli sguardi non hanno bisogno di fare caso agli oggetti che sono già precisamente nella memoria. Conosco le abitudini e gli animi e quel dialetto di allusioni che ogni raggruppamento umano ordisce. Non ho bisogno di parlare né di mentire privilegi; bene mi conoscono coloro che qui mi circondano, bene sanno le mie angosce e la mia debolezza. Questo è raggiungere ciò che è più alto, ciò che forse ci darà il Cielo: non ammirazione né vittorie ma semplicemente essere ammessi come parte di una Realtà innegabile, come le pietre e gli alberi.
Entra la luce e affioro lentamente dai sogni all’altro sogno condiviso in cui le cose riprendono il posto loro fissato, mentre nel presente converge vasto e schiacciante il confuso ieri: le secolari migrazioni degli uccelli e dell’uomo, le legioni che il ferro decimò, Roma e Cartagine. E ritorna la quotidiana storia: la voce e il volto miei, timore e sorte. Ah se quell’altro destarmi, la morte, recasse un tempo senza più memoria del mio nome e di quanto sono stato! Se mi portasse l’oblio quel mattino!
Se io potessi vivere un’altra volta la mia vita nella prossima cercherei di fare più errori non cercherei di essere tanto perfetto, mi negherei di più, sarei meno serio di quanto sono stato, difatti prenderei pochissime cose sul serio. Sarei meno igienico, correrei più rischi, farei più viaggi, guarderei più tramonti, salirei più montagne, nuoterei più fiumi, andrei in posti dove mai sono andato, mangerei più gelati e meno fave, avrei più problemi reali e meno immaginari. Io sono stato una di quelle persone che ha vissuto sensatamente e precisamente ogni minuto della sua vita; certo che ho avuto momenti di gioia ma se potessi tornare indietro cercherei di avere soltanto buoni momenti. Nel caso non lo sappiate, di quello è fatta la vita, solo di momenti, non ti perdere l’oggi. Io ero uno di quelli che mai andava in nessun posto senza un termometro, una borsa d’acqua calda, un ombrello e un paracadute; se potessi vivere di nuovo comincerei ad andare scalzo all’inizio della primavera e continuerei così fino alla fine dell’autunno. Farei più giri nella carrozzella, guarderei più albe e giocherei di più con i bambini, se avessi un’altra volta la vita davanti. Ma guardate, ho 85 anni e so che sto morendo.
Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire. Chi è contento che sulla terra esista la musica. Chi scopre con piacere un’etimologia. Due impiegati che in un caffè del Sur giocano in silenzio agli scacchi. Il ceramista che premedita un colore e una forma. Il tipografo che compone bene questa pagina, che forse non gli piace. Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto. Chi accarezza un animale addormentato. Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto. Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson. Chi preferisce che abbiano ragione gli altri. Queste persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.
La vecchiaia (è questo il nome che gli altri le danno) può essere per noi il tempo più felice. È morto l’animale o è quasi morto. Restano l’uomo e l’anima. Vivo tra forme luminose e vaghe che ancora non son tenebra. Buenos Aires, che un tempo si lacerava in sobborghi verso la pianura incessante, è di nuovo la Recoleta, il Retiro, le confuse strade dell’Once e le precarie case vecchie che seguitiamo a chiamare il Sud. Nella mia vita son sempre state troppe le cose; Democrito di Abdera si strappò gli occhi per pensare; il tempo è stato il mio Democrito. Questa penombra è lenta e non fa male; scorre per un mite pendio e somiglia all’eterno. Gli amici miei non hanno volto, le donne son quello che furono in anni lontani, i cantoni sono gli stessi e altri, non hanno lettere i fogli dei libri. Dovrebbe impaurirmi tutto questo e invece è una dolcezza, un ritornare. Delle generazioni di testi che ha la terra non ne avrò letti che alcuni, quelli che leggo ancora nel ricordo, che rileggo e trasformo. Dal Sud, dall’Est, dal Nord e dall’Ovest convergono le vie che mi han condotto al mio centro segreto. Vie che furono già echi e passi, donne, uomini, agonie e risorgere, giorni con notti, sogni e immagini del dormiveglia, ogni minimo istante dello ieri e degli ieri del mondo, la salda spada del danese e la luna del persiano, gli atti dei morti, l’amore condiviso, le parole, ed Emerson, la neve, e quanto ancora. Posso infine scordare. Giungo al centro, alla mia chiave, all’algebra, al mio specchio. Presto saprò chi sono.
Sogno un antico re. Di ferro è la corona e morto lo sguardo. Non ci sono più di queste facce. La ferma spada lo rispetterà, leale come il suo cane. Non so se è di Northumbria o di Norvegia. So che è del Nord. La folta e rossa barba gli copre il petto. Non mi getta uno sguardo, il suo sguardo cieco. Da quale spento specchio, da quale nave dei mari che furono la sua avventura, sarà spuntato l’uomo grigio e grave che mi impone la sua antichità e la sua amarezza? So che mi sogna e che mi giudica, eretto. Il giorno entra nella notte. Non se n’è andato.
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