Con cosa posso trattenerti? Ti offro strade difficili, tramonti disperati la luna di squallide periferie. …Ti offro le amarezze di un uomo che ha guardato a lungo la triste luna. Ti offro i miei antenati, i miei morti, i fantasmi a cui i viventi hanno reso onore col marmo: il padre di mio padre ucciso sulla frontiera di Buenos Aires due pallottole attraverso i suoi polmoni, barbuto e morto, avvolto dai soldati nella pelle di una mucca il nonno di mia madre – appena ventiquattrenne – a capo di trecento uomini in Perù, ora fantasmi su cavalli svaniti. Ti offro qualsiasi intuizione sia nei miei libri, qualsiasi virilità o vita umana. Ti offro la lealtà di un uomo che non è mai stato leale. Ti offro quel nocciolo di me stesso che ho conservato, in qualche modo – il centro del cuore che non tratta con le parole, nè coi sogni e non è toccato dal tempo, dalla gioia, dalle avversità. Ti offro il ricordo di una rosa gialla al tramonto, anni prima che tu nascessi. Ti offro spiegazioni di te stessa, teorie su di te, autentiche e sorprendenti notizie di te. Ti posso dare la mia tristezza, la mia oscurità, la fame del mio cuore cerco di corromperti con l’incertezza, il pericolo, la sconfitta.
Vantino altri le pagine ch’ han scritto l’orgoglio mio è per quelle che ho letto. Filologo non sarò stato, non avrò investigato le declinazioni, i modi , il laborioso mutar di lettere, lad che si indurisce in t l’equivalenza di g e k, ma in tutti questi anni ho professato passione di linguaggio. Le mie notti son piene di Virgilio; aver saputo e scordato il latino è la sua acquisizione, ché l’oblio forma è della memoria, la sua vaga rimessa, l’altra segreta faccia di moneta. Quando si cancellarono nei miei occhi le vane apparenze amate, i volti e la pagina, a studiar presi il linguaggio di ferro che usarono i miei antichi per cantare solitudine e spade, e ora, attraverso ben sette secoli, da quell’ ultima Thule, fino a me la tua voce giunge, Snorri Sturloson. Dinnanzi al libro, chi è giovane s’impone una disciplina precisa e lo fa al fin d’ un sapere preciso; alla mia età ogni impresa è un’avventura cui confine è la notte. Non finirò di decifrare le antiche lingue del Nord, Non affonderò le mani ansiose nell’oro del Sigurd; quest’ opera cui attendo è illimitata e mi accompagnerà fino alla fine; dell’universo non men misteriosa e di me, l’apprendista.
Le monete, il bastone, il portachiavi, la pronta serratura, i tardi appunti che non potranno leggere i miei scarsi giorni, le carte da gioco e gli scacchi, un libro e tra le pagine appassita la viola, monumento d’una sera di certo inobliabile e obliata, il rosso specchio a occidente in cui arde illusoria un’aurora. Quante cose, atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi, ci servono come taciti schiavi, senza sguardo, stranamente segrete! Dureranno più in là del nostro oblio; non sapran mai che ce ne siamo andati.
Mai ci sarà un’uscita. Tu sei dentro
e la fortezza è pari all’universo
e non ha né diritto né rovescio
né muro esterno né segreto centro.
Non sperar che il rigor del tuo cammino
che in un altro, ostinato, si biforca,
che in un altro, ostinato, si biforca,
abbia fine. È di ferro il tuo destino,
e il tuo giudice pure. Non aspettarti
l’assalto del toro, uomo la cui strana
plurima forma d’orrore ricolma
l’intrico interminabile di pietra.
Non esiste. Non c’è nulla d’attendere
Neanche, al nero crepuscolo, la fiera.
Invio questo poema (per ora accettiamo tale parola) al terzo uomo che s’incrociò con me l’altra notte, non meno misterioso di quello di Aristotele. Il sabato uscii. La notte era piena di gente; ci fu certamente un terzo uomo, come ce ne fu un quarto ed un primo. Non so se ci guardammo; andava verso Paraguay, io verso Cordova. Forse lo hanno generato queste parole; non saprò mai il suo nome. So che c’è un sapore che predilige. So che ha guardato lentamente la luna. Non è impossibile che sia morto. Leggerà ciò che scrivo e non saprà che mi rivolgo a lui. Nell’oscuro avvenire possiamo essere rivali e rispettarci o amici e volerci bene. Ho eseguito un gesto irreparabile, ho stabilito un legame. In questo mondo quotidiano, che somiglia tanto al libro delle Mille e Una Notte, non c’è un solo gesto che non corra il rischio di essere un’operazione di magia, non c’è un solo fatto che non possa essere il primo di una serie infinita. Mi domando che ombre getteranno questi oziosi versi.
Siamo il tempo. Siamo la famosa parabola di Eraclito l’Oscuro. Siamo l’acqua, non il diamante duro, che si perde, non quella che riposa. Siamo il fiume e siamo anche quel greco che si guarda nel fiume. Il suo riflesso muta nell’acqua del cangiante specchio, nel cristallo che muta come il fuoco. Noi siamo il vano fiume prefissato, dritto al suo mare. L’ombra l’ha accerchiato. Tutto ci disse addio, tutto svanisce. La memoria non conia più monete. E tuttavia qualcosa c’è che resta E tuttavia qualcosa c’è che geme.
C’è tanta solitudine in quell’oro. La luna delle notti non è la luna che vide il primo Adamo. I lunghi secoli della veglia umana l’hanno colmata di antico pianto. Guardala. È il tuo specchio.
Ringraziare voglio il divino labirinto degli effetti e delle cause per la diversità delle creature che compongono questo singolare universo, per la ragione, che non cesserà di sognare un qualche disegno del labirinto, per il viso di Elena e la perseveranza di Ulisse, per l’amore, che ci fa vedere gli altri come li vede la divinità, per il saldo diamante e l’acqua sciolta, per l’algebra, palazzo dai precisi cristalli, per le mistiche monete di Angelus Silesius, per Schopenhauer, che forse decifrò l’universo, per lo splendore del fuoco che nessun essere umano può guardare senza uno stupore antico, per il mogano, il cedro e il sandalo, per il pane e il sale, per il mistero della rosa che prodiga colore e non lo vede, per certe vigilie e giornate del 1955, per i duri mandriani che nella pianura aizzano le bestie e l’alba, per il mattino a Montevideo, per l’arte dell’amicizia, per l’ultima giornata di Socrate, per le parole che in un crepuscolo furono dette da una croce all’altra. per quel sogno dell’Islam che abbracciò mille notti e una notte, per quell’altro sogno dell’inferno, della torre del fuoco che purifica, e delle sfere gloriose, per Swedenborg, che conversava con gli angeli per le strade di Londra, per i fiumi segreti e immemorabili che convergono in me, per la lingua che, secoli fa, parlai nella Northumbria, per la spada e Tarpa dei sassoni, per il mare, che è un deserto risplendente e una cifra di cose che non sappiamo, per la musica verbale dell’Inghilterra, per la musica verbale della Germania, per l’oro, che sfolgora nei versi, per l’epico inverno, per il nome di un libro che non ho letto: Gesta Dei per Francos per Verlaine, innocente come gli uccelli, per il prisma di cristallo e il peso d’ottone, per le strisce della tigre, per le alte torri di San Francisco e dell’isola di Manhattan per il mattino nel Texas, per quel sivigliano che stese l’Epistola Morale e il cui nome, come egli avrebbe preferito, ignoriamo, per Seneca e Lucano, di Cordova, che prima dello spagnolo scrissero tutta la letteratura spagnola, per il geometrico e bizzarro gioco degli scacchi, per la tartaruga di Zenone e la mappa di Royce, per l’odore medicinale degli eucalipti, per il linguaggio, che può simulare la sapienza, per l’oblio, che annulla o modifica il passato, per la consuetudine, che ci ripete e ci conferma come uno specchio, per il mattino, che ci procura l’illusione di un principio per la notte, le sue tenebre e la sua astronomia, per il coraggio e la felicità degli altri, per la patria, sentita nei gelsomini o in una vecchia spada, per Whitman e Francesco d’Assisi, che scrissero già questa poesia, per il fatto che questa poesia è inesauribile e si confonde con la somma delle creature e non arriverà mai all’ultimo verso e cambia secondo gli uomini, per Frances Haslam, che chiese perdono ai suoi figli perché moriva così lentamente, per i minuti che precedono il sonno, per il sonno e la morte, per due tesori occulti, per gli intimi doni che non elenco, per la musica, misteriosa forma del tempo.
In quel preciso momento l’uomo disse: che cosa non darei per la gioia di stare al tuo fianco in Islanda sotto il gran giorno immobile e condividerlo adesso come si condivide la musica o il sapore di un frutto. In quel preciso momento l’uomo le stava accanto in Islanda. Esiste o no il sogno che smarrii prima dell’alba?
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